200 g di formaggio misto, possibilmente pecorino e romanesco, di cui metà grattugiato e metà a pezzetti
50 g di strutto
50 g di olio extravergine d’oliva
60 g di lievito di birra
7-8 grani di pepe
Sale
Olio o strutto per ungere la tortiera
Procedimento
Ponete i grani di pepe in un pentolino assieme a un po’ d’acqua e fate bollire per un quarto d’ora, quindi lasciate raffreddare e filtrate. Lavorate assieme la farina, le uova, lo strutto, l’olio, i formaggi, l’acqua aromatizzata al pepe, un bel pizzico di sale e il lievito, sciolto in poca acqua tiepida. Ungete una tortiera alta, con la base più stretta della parte superiore e riempitela a metà con l’impasto. Fate lievitare fino a quando la torta non avrà raggiunto i bordi della tortiera (sarà necessaria all’incirca un’ora – un’ora e mezza) quindi infornate a 160° circa. Fate cuocere per circa un’ora, alzando a 180° verso fine cottura. Sfornate e lasciate raffreddare prima di gustare la torta, che si conserva per molti giorni.
Questa versione della torta di Pasqua con il formaggio, pur essendo moderna perché prevede la cottura nel forno, rispetta negli ingredienti e nella forma la torta tradizionale. La devo alla signora Carla Onorini di Magione, che tra l’altro, invece di mettere il pepe in grani previsto dalla ricetta originale e non a tutti gradito, aromatizzava la torta con acqua bollita al pepe. La torta – pizza nell’Umbriadel sud, crescia a Gubbio – con il formaggio, oggi si trova tutto l’anno nelle panetterie, ma un tempo compariva sulle mense degli umbri solo nel periodo pasquale e anche il 6 gennaio, giorno di Pasqua Epifania, che per la tradizione popolare è la prima Pasqua dell’anno.
Per gentile concessione di Calzetti&Mariucci editore.
Il tartufo e i salumi di Norcia, i formaggi di Vallo di Nera, i vini di Montefalco, Torgiano e Corciano, così come l’olio di Castiglione del Lago, di Lugnano in Teverina eTrevi: l’Umbria da gustare.
Nulla rappresenta l’Umbria come la varietà e la genuinità dei prodotti enogastronomici: legumi e cereali, ma soprattutto il frutto delle trasformazioni operate dall’uomo – formaggi, salumi, prodotti panificati, olio, vino. Una rosa di alimenti che, soli, rappresentano una regione estremamente legata alla terra, perfetta espressione del paesaggio che la caratterizza.
Una convinzione diffusa vuole che i cosiddetti piatti tipici siano anche antichi, frutto di una lunga tradizione locale e rurale. In realtà, i cibi giunti fino a noi dal passato sono benpochi: sicuramente non figurano tutti quegli ingredienti provenienti dal Nuovo Mondo – patate, pomodori, mais, fagioli, cioccolato – che in Europa trovarono larga diffusione solo dal 1800 e che pure costruiscono l’elemento principale di piatti definiti locali o rurali. Anzi, molti di questi prodotti erano appannaggio delle classi più abbienti, che però erano solite gustarsi pietanze molto ricche e speziate, frutto di cotture multiple, in cui venivano occultati non solo il sapore e l’aspetto naturale, ma anche la tipicità e la logica della stagioni. Così, quella che oggi viene romanticamente considerata tradizione enogastronomica, il realtà non è che il retaggio degli ultimi due secoli, specie del periodo tra le due guerre.
La vera cucina rurale e regionale nasce nel XVIII in Francia, dove cominciano a essere sperimentate preparazioni più semplici ma, paradossalmente, più dotte, caratterizzate da alimenti freschi, verdure, erbe aromatiche e da una separazione ben nettatra i sapori. Prima che il nostro orgoglio nazionale ne esca ferito, c’è da specificare che i nostri connazionali parteciparono a questa rivoluzione proponendo una cucina ancor più garbata e semplice, ponendosi per la prima volta il problema dell’identità culinaria e delle tradizioni locali. Lentamente nacquero i primi ricettari, dove la nuova gastronomia francese o francesizzante si mescolava alla cucina popolare delle occasioni solenni – feste, riti propiziatori, occasioni di aggregazione legate a particolari momenti dell’anno. Si sa, il cibo da sempre stimola i rapporti umani, al punto che eventi come la vendemmia, la battitura del grano, la raccolta dello olive o l’uccisione del maiale si traducevano in occasioni di convivialità, veri e propri esempi di compenetrazione tra territorio e enogastronomia.
Il maiale e il tartufo
I ricchi, abituati alla cacciagione, consideravano il maiale cibo da poveri. In realtà, le famiglie che potevano permetterselo, si assicuravano nutrimento per un anno: il maiale, insieme ai suoi derivati, era un ottimo ricostituente per i contadini provati dalle fatiche agricole. Norcia, famosa oggi come allora per la presenza dei norcini, è stata da tempo associata ai salumi grazie all’uso attento delle tradizionali tecniche di lavorazione della carne – peraltro mutuate sulle procedure dei chirurghi preciani, veri e propri pionieri nel trattamento dei mali che da sempre affliggono l’uomo. Tra i prodotti più celebri spicca il Prosciutto di Norcia IGP, ma non mancano insaccati e prodotti caseari – si pensi alla grande mostra mercato Fior di Cacio, che anima il borgo di Vallo di Nera con degustazioni, cooking show, laboratori per bambini e con la maxi ricotta presentata dai Cavalieri della Tavola Apparecchiata – spesso arricchiti anche dal tartufo che, proprio a Norcia, veniva un tempo cacciato con le scrofe, attirate dall’androsterone presente nel tartufo come nel feromone dei maschi. I Romani, che ne erano ghiotti, lo chiamavano funus agens, perché provocava indigestioni mortali, mentre, in epoca moderna, si pensava che avesse delle proprietà afrodisiache, forse proprio per quella stessa analogia tra il maiale e l’uomo da cui a Norcia nacque il mestiere del chirurgo.
Il vino
L’Umbria può vantare ben due DOCG in ambito vinicolo: il Sagrantinodi Montefalco e il Torgiano Rosso Riserva. Montefalco si è caratterizzato fin dal passato per la cura del vigneto, geneticamente poco produttivo – negli anni Sessanta era quasi scomparso – e per la produzione di un vino rosso rubino dipinto anche da Benozzo Gozzoli nel ciclo ispirato alla vita di San Francesco, posto proprio nella chiesa di San Fortunato, nel centro cittadino. Il prodotto di questi uvaggi puri o misti, ma al cento percento provenienti da vitigni autoctoni, trova largo impiego non solo negli abbinamenti, ma anche nella preparazione stessa di primi piatti e cacciagione. Dal canto suo, Torgiano Riserva, che per disposizione del disciplinare deve essere sottoposto ad almeno tre anni di invecchiamento – dei quali sei mesi in bottiglia, di vetro tipo bardolese o borgognotta – è perfettamente indicato per pastasciutte, pollame nobile, arrosti e formaggi stagionati. Viene anche diluito e utilizzato per comporre delle opere inedite: ogni anno, gli artisti di Torgiano dipingono infatti i vinarelli, sorta di acquerelli color borgogna venduti per sostenere le attività culturali del borgo.
Tutte queste roccaforti di produzione sono comprese in specifici itinerari, la cui chiave di volta è l’eccellenza: Torgiano è compreso sotto la Strada dei Vini Cantico, mentre l’AssociazioneStrada del Sagrantino abbraccia Montefalco e le sue colline.
Ma i percorsi non finiscono qui: la Strada del Vino Colli del Trasimeno comprende, ad esempio, i borghi di Corciano – definita anche città del pane per la sua lunga tradizione produttiva ma, prima di tutto, animata dall’annuale Castello diVino, ricco di concorsi a tema e degustazioni – e Castiglione del Lago, famosa anche per la regina in porchetta, la carpa del lago aromatizzata al prosciutto.
Non possiamo certo dimenticarci del vin santo, produzione che risente della vicina Toscana, ma che a Citerna trova, nella sua variante affumicata, la denominazione di Presidio Slow Food. Essendo questa una zona da lungo tempo votata alla coltivazione del tabacco, per ottimizzare gli spazi sia le foglie sia i grappoli venivano appesi alle travi, in modo che entrambi potessero seccarsi grazie ai camini o alle stufe. Il fumo che, inevitabilmente, si sprigionava, finiva per donare alle uve quel tipico retrogusto di affumicatura che ancora oggi caratterizza la produzione citernese.
L'olio
L’Umbria e il suo cuore verde sono stati declinati in modi innumerevoli: dalle foreste all’ombra che esse generano, il nome stesso della regione parla di vegetazione, rigogliosa e fresca. Ma come non pensare al verde-argenteo degli olivi che presidiano i pendii?
Per Trevi passa la fascia olivata, una zona, posta a trecento metri di altitudine e lunga 35 km, iscritta nel catalogo dei Paesaggi Rurali Storici per il modo in cui ha cambiato non solo il paesaggio, rendendolo caratteristico, ma anche le vite degli uomini che da tempo se ne prendono cura. La conseguente produzione di olio la annovera, a buon diritto, tra le Città dell’Olio, tra le quali spicca anche il borgo di Lugnano in Teverina: luoghi in cui la tradizione olivicola fa rima con ambiente, con territorio e con un patrimonio umano da tutelare.
Ma che fa il paio, soprattutto, con un’attività antichissima, testimoniata dagli ultimi baluardi di un tempo che fu: olivi millenari, come quello a Villastrada, nel borgo di Castiglione del Lago, o quello a Bovara di Trevi, vecchio 17 secoli, sul quale sembra che fu decapitato nientemeno che il vescovo Emiliano, poi divenuto santo.
«Lasciatevi incantare da uno dei borghi più belli d’Italia, Vallo di Nera, e concedetevi, tra torri medioevali ed echi di antichi cantori, l’assaggio di pregiati formaggi».
Fior di Cacio
La Valnerina più ricca, quella più antica e autentica, dove è fiorita la millenaria sapienza umbra e nel cui ventre sbocciano aromi apprezzati a ogni latitudine; ma anche la Valnerina più impervia e selvaggia laddove osano le aquile e si nasconde il lupo. Sapori arcaici e autentica ruralità che storicamente caratterizzano questo idillio bucolico e che tenteremo di raccontarvi in un itinerario il quale, nonostante l’ambizioso titolo, racchiude frammenti di una quotidianità sepolta tra la polvere della memoria. E allora lasciatevi incantare da uno dei Borghi più Belli d’Italia, Vallo di Nera, e concedetevi, tra torri medioevali ed echi di antichi cantori, l’assaggio di pregiati formaggi. Perché questo è quello che agli Umbri piace, perché questa è la nostra cultura.
Un prodotto antico
Nel ricomporre le tarsie di quell’antico mosaico sepolto lungo l’argine del tempo, che è la storia del formaggio, la bussola che orienta la ricerca dei food lovers punta con straordinaria fermezza il Medio Oriente e la leggenda di quel pastore arabo che, attraversando il deserto, conservò del latte di capra in un otre ignorando il processo di stagionatura che avrebbe invece notato giunto al termine della traversata. Dischiusa dalla mitologia araba e sfiorata dal respiro mediterraneo del greco antico, l’etimologia della parola formaggio si intreccia inesorabilmente tra i vimini dell’antico paniere in cui veniva depositato il latte cagliato, formos per l’appunto, divenuto successivamente fromage per le popolazioni galliche e forma per gli antichi abitanti dell’Urbe. Un atlante, quello del formaggio, in cui punti cardinali e coordinate geografiche lasciano spazio a una geografia di scenari alpestri e pastori che a Vallo di Nera, il borgo-castello della Valnerina, resiste eroicamente tra frammenti di memoria pastorale e tradizioni millenarie.
Vallo di Nera e Fior di Cacio
Imbrigliata dallo sguardo marmoreo dell’imponente cassero medioevale Vallo di Nera, avamposto della civiltà contadina e Presidio Slow Food, appare sospesa nel vuoto cosmico di una clessidra i cui granelli di sabbia diventano gocce di memoria di greggi e pastori, custodi di un’antica tradizione casearia che, in questo coriandolo di Umbria, viene omaggiata da un’annuale mostra mercato, Fior di Cacio. La civiltà pastorale, i cui echi appaiano scolpiti in bassorilievi di sentieri e tratturi, a Vallo di Nera diventa depositaria di una ricca tradizione orale, fiorita lungo le rotte della transumanza per opera di aedi pastori che rispondevano agli echi della natura improvvisando canti e narrazioni. Oggi quel passato è documentato dalla Casa dei Racconti, teatro in cui a esibirsi è una memoria popolare fatta di voci in metrica attraverso la quale recuperare l’identità culturale di una quotidianità remota eretta tra macerie del tempo.
Per gustarlo al meglio
Vademecum per abbinare in tavola i formaggi della Valnerina non esistono. Tuttavia è possibile accompagnare l’abbinamento secondo prelibati suggerimenti, nonostante i grandi formaggi vadano degustati abbinati a prodotti semplici che ne esaltino pastosità e fragranza, come buon pane e confetture di cui la Valnerina vanta un ricco catalogo. Declinato in tutte le sue vesti il formaggio della Valnerina esalta palati e papille dei commensali se abbinato per contrasto o per similitudine ai vini tipici della Verde Umbria, in un trionfo enogastronomico di aromi e sapori arcaici. Per gli amanti dell’autenticità la birra, che attraverso il brio del luppolo annulla la corposità del formaggio, e le pregiate confetture che il fiume Nera matura all’ombra di pioppi dalle fronde sottili rappresentano eccellenti partner per questo viaggio nella Terra dei Pastori, enciclopedia del gusto e della tradizione.
Negli ultimi 20-30 anni è maturato un rinnovato interesse per il cibo sano e di qualità, e l’Umbria si trova proprio nel bel mezzo di questo Rinascimento, che include sia antiche qualità di prodotti sia cibo biodinamico e biologico.
Sapori antichi
Gli alimenti antichi o “di una volta” fanno riferimento a colture che sono state riscoperte dopo anni di scarso utilizzo o addirittura di inutilizzo. È stato ricostruito l’albero genealogico delle sementi per piantare prodotti vegetali che sembravano ormai perduti, rimpiazzati da nuove varietà o da ibridi. Molto spesso, non è possibile trovare questi prodotti nemmeno nei punti vendita. Alcuni di essi possono non essere esteticamente attraenti come i loro alter ego moderni, ma possiedono un gusto unico e delizioso.
Per più di trent’anni, alcuni coltivatori nei pressi di Città di Castello sono andati alla ricerca di antiche varietà di alberi da frutto, e ora il loro frutteto include meli, peri, ciliegi, susini, alberi di fichi e di mandorle. Tutti gli esemplari sono stati catalogati e i loro semi vengono conservati. Proprio per promuovere i frutti “di una volta”, i coltivatori hanno messo in vendita i loro alberi storici tramite l’Azienda Agricola Archeologia Arborea, rendendoli disponibili anche al grande pubblico.
Osserviamo le stelle
Il metodo biodinamico, dal canto suo, si riferisce ad un tipo di agricoltura basata sullo stretto rapporto con i ritmi della natura. Seguendo i principi elaborati da Rudolf Steiner negli anni Venti del Novecento, ha come obiettivo quello di restaurare, mantenere e potenziare la sinergia con l’ambiente. Gli agricoltori più importanti cercano altresì di differenziare le colture, di usarne altre complementari – come quella del trifoglio o dell’orzo per reintrodurre azoto nel terreno – e di ruotarle frequentemente, ma anche di tenere in considerazione la posizione della luna e delle stelle nel momento della semina e del raccolto.
In Umbria si possono trovare diversi prodotti di questo tipo, come il vino dell’Azienda Fonteseccadi Città della Pieve, quello della Fattoria Mani di LunaTorgiano, o di Raìna, il cui quartier generale si trova a Montefalco. Allo stesso modo, tra le offerte di alcune aziende si annoverano olio biodinamico – come nel caso dell’Azienda Agraria Hispellum di Spello o di Fonte Verginedi Terni – o cereali, come nel caso dell’Azienda Biodinamica Conca d’Orodi Gubbio o Torre Colombaiadi San Biagio della Valle (una frazione di Marsciano). Alcuni caseifici locali producono formaggi con il latte di ovini allevati secondo i principi della biodinamica, come per esempio la Fattoria Il Secondo Altopianodi Orvieto.
Ci si può associare a diverse organizzazioni di produttori biodinamici, delle quali Demeterè riconosciuta a livello globale, mentre l’Associazione Nazionale per l’Agricoltura Biodinamica, gruppo diffuso a livello nazionale, ha il suo distaccamento umbro proprio a Spello.
La questione del biologico
“Biologico” è forse la più controllata –sebbene fraintesa- nomenclatura che possiamo trovare oggi sulle nostre tavole. Solo una decina di anni fa, il termine era usato in maniera piuttosto approssimativa e senza alcuna certificazione preventiva; adesso invece, attenersi ai severi prerequisiti richiesti dalle etichette significa avere avuto l’autorizzazione ad usare la parola “biologico” da parte di alcune agenzie governative. L’accettazione all’interno di questa rete implica severi controlli delle quantità e delle tipologie di fertilizzanti usate, il divieto di usare pesticidi e erbicidi, e dichiarazioni sul trattamento sporadico delle colture – soltanto quando la pioggia o i cambiamenti climatici ne rendono necessario l’uso.
La famosa Foglia Verde è garanzia di biologico e indica che il prodotto è stato soggetto ad una serie di controlli europei operati sulle direttive della legge 834/2007. In Umbria ci sono una serie di enti che possono conferire la foglia verde, tra cui ICEA, Ecocert (un ente di origine francese), Suolo e Salute, Bioagricert.
Un processo delicato
Per essere riconosciuto come biologico, un prodotto deve essere raccolto o lavorato attraverso strumenti certificati.
Nel caso dei cereali, il coltivatore deve inviare il proprio raccolto ad un molino certificato, come per esempio il Molino Silvestridi Torgiano, che macina e rivende la farine ottenute sia a privati, sia a ristoranti umbri e toscani.
Allo stesso modo, per produrre ad esempio un olio che sia biologico, la spremitura delle olive deve avvenire in un frantoio che abbia ottenuto una certificazione in tal senso. Il momento migliore per macinare è la mattina, quando ancora c’è la possibilità di utilizzare macchinari puliti, senza residui di prodotti non biologici.