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Venerdì a Palazzo Gallenga viene inaugurata la mostra Stele di Enrico Antonielli; lo scultore, oltre alla produzione della scultura a tutto tondo, si occupa, nell’arco della sua consueta attività, anche della produzione pittorica.

Opera di Enrico Antonielli

 

Lo scultore e pittore Enrico Antonielli nasce a Perugia; si laurea in Filosofia all’Università degli Studi La Sapienza di Roma e negli anni Settanta ricopre il ruolo di direttore del CICoM (Centro per l’Informazione e la Comunicazione di Massa della Regione Umbria) e collabora con la rivista romana Filosofia e Società. In seguito frequenta i corsi di pittura e scultura all’Accademia di Belle Arti di Perugia e si laurea in Storia dell’Arte. Perugia è la città dove comincia a esporre come scultore.

La mostra

Con le opere esposte alla mostra, visibile dal 7 al 14 settembre, l’artista espone una produzione che va a scoprire significati inconsci, oggettivando inedite visioni insite nell’opera; egli sembra muoversi negli interstizi spazio-temporali dell’opera, dove l’arte – «enigma eccessivo», secondo l’aforisma di Malraux – trionfa per la sua irraggiungibilità, spostandosi come un bersaglio mobile.
Gli studi storici e archeologici ci dicono che la funzione della stele può essere commemorativa, celebrativa o votiva. La stele è un documento di pietra o bronzo che, quando si presenta sotto forma di epigrafe, affida un evento privato o pubblico all’eternità; il messaggio quindi, scritto o scolpito che sia, non viene scalfito dal tempo, ma attraverso di esso giunge a noi. Le opere esposte, caratterizzate dalla presenza di lacerazioni e fori sulla superficie, richiamano alla mente laghi fossili e crateri i quali ricordano le plaghe desertiche lunari; fondamentale in queste opere è la scelta del materiale da parte dell’artista: l’alluminio.

 

Superfici specchiate

Giuliano Serafini, critico internazionale, massimo specialista di Burri e curatore di mostre ad Atene e a New York, sottolinea il fatto che

l’artista effettua un lavoro di de-semantizzazione dell’archetipo, un’azione di svuotamento di significato, perché solo così l’opera potrà conquistarsi un’autonomia significante. Lo stesso critico inoltre scrive: «L’alluminio specchiante è di per sé emanazione luminosa attraverso cui l’immagine rimbalza e ritorna al mittente, è estensione cangiante e aleatoria su cui tutto trascorre e scivola. È metafora dell’Hic et Nunc che nega al tempo di lasciare tracce durature, quindi materiale destinato a non poter ricordare a non poter affidare nessuna memoria all’eternità».

Per l’artista, l’uso della superficie specchiante rappresenta metaforicamente la drammatica linea di confine, il diaframma metafisico tra l’aldiquà e l’aldilà, la borderline del rischio esistenziale, il limite invalicabile tra mondo fenomenico e mondo noumenico, la soluzione di continuità tra due mondi inconciliabili. Il concetto di limite è l’interpretazione data della superficie specchiante, la cui sostanza non a caso è la superficie, strumento inerte della luce che rimbalza e riflette e, con il suo riflesso fenomenico, ci riporta inesorabilmente alla coscienza della nostra condizione umana, esistenziale e finita.
L’artista sottolinea che la sua prospettiva estetica si inserisce nel filone dell’arte-verità, la quale ha una lunga storia, che parte dal famoso Ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck, dove il pittore attraverso lo specchio convesso appeso alla parete rivela ciò che sta dietro e oltre la figurazione prospettica anteriore al cavalletto, cioè la sua presenza nella stanza, con un prolungamento dello spazio in una realtà aumentata a 360°, che dà conto di tutta la realtà presente al momento, pittore compreso.

Sabato 8 Aprile 2017, presso lo Spazio Arte Valcasana (Scheggino – PG), nell’ambito della manifestazione Diamante Nero, è stata inaugurata la mostra d’arte internazionale CromoNero, con la presentazione del Sindaco di Scheggino Paola Agabiti e del curatore Graziano Marini.

mostra scheggino

Gli artisti coinvolti

La mostra è stata organizzata con il contributo, oltre a quello di Graziano Marini, di Pino Bonanno e Franco Profili. Il periodo della mostra sarà dall’8 Aprile al 1 Maggio 2017. Trentacinque sono stati gli artisti coinvolti nell’evento: Afro, Valentina Angeli, Enrico Antonielli, Chiara Armellini, Gianni Asdrubali, Romeo Battisti, Pino Bonanno, Sestilio Burattini, Tommaso Cascella, Bruno Ceccobelli, Piero Dorazio, Marino Ficola, Giuseppe Friscia, Benvenuto Gattolin, Giuliano Giuliani, Eugène Ionesco, Davide Leoni, Annamaria Malaguti, Graziano Marini, Arianna Matta, Saverio Mercati, Kristina Milakovic, Gianluca Murasecchi, Franco Profili, Giosuè Quadrini, Virginia Ryan, Raffaele Ricci, Roberto Ruta, Antonio Sammartano, Pino Spagnulo, Giulio Turcato, Xavier Vantaggi, Emilio Vedova, Franco Venanti, Paul Wiedmer.

Il nero del Diamante

L’evento CromoNero è concomitante con la tradizionale festa del Diamante Nero, ovvero la festa del tartufo nero, prodotto tipico del territorio apprezzato in tutto il mondo. La decisione di realizzare tale progetto espositivo ha presupposto una particolare sensibilità a far sì che il Nero fosse sentito come riferimento importante per ogni azione creativa d’arte visiva, sia essa espressa attraverso la pittura, sia attraverso la scultura.
Si è consapevoli che, quando ci si esprime con il colore, si evocano sempre sensazioni, emozioni e ricordi; Jung sosteneva che esso porta in sé un significato più ampio, inconscio, che non è semplice da definire o spiegare completamente. Quando la mente ne esplora il significato suscita idee che vanno oltre la razionalità. Infatti scrisse: «Il nero è il colore delle origini, degli inizi, degli occultamenti nella loro fase germinale, precedente l’esplosione luminosa della nascita».

Il colore del mistero

Nell’arte, il bianco e il nero sono colori-non colori, per molti versi sopportati, altre volte ossessivamente analizzati. Hanno la capacità di contenere tra loro l’intero universo, come il senso dell’infinito. Sono gli eccessi di uno stesso mondo.
Sappiamo che, soprattutto il nero, corrisponde alla schematizzazione cromatica delle prime domande che l’uomo si è posto, in quanto assorbe, non respinge, attrae.
È il colore del mistero. Non si sa quali risposte contenga e nasconda, ed è questa la grande sfida che attira e coinvolge gli artisti, presi come sono a cercare l’altro da sé, l’oltre inesplorato, l’evocazione di ogni orizzonte che sfugge e allontana il tempo.

L’artista sa bene che il seme per germogliare deve essere sepolto nella terra, nell’oscurità, ma sa anche che il messaggio che ci trasmette contiene elementi di vitalità e inquietudini ancestrali. Il tartufo nero, nella sua conformazione strutturale, rappresenta bene questo senso di fragile inconsistenza dell’esistenza. La sua asperità e la sua “fragranza” interna si contrastano, ma si accolgono per rappresentarci completamente il senso ultimo della vita. Perché, come nella favola di Eros e Psiche di Apuleio, l’amore prospera al buio e il nero costituisce l’elemento più adatto a rappresentarlo se si sanno cogliere le varie sfumature che esso comporta, conferendo un senso del sacrificio, tenacia, pessimismo, abnegazione e risolutezza nel perseguire le proprie emozioni.

«Il nero mi ossessiona»

Mirò diceva: «Il nero mi ossessiona, non esiste altro colore con così tante qualità e sfumature, è il paradiso della pittura, è l’inizio e la fine», mentre Van Gogh sosteneva che il nero va considerato come la più luminosa combinazione dei più scuri rossi, azzurri e gialli. Ovvero racchiude una concentrazione infinita di colori caldi e per questo va “vissuto” come se fosse un alito che ci alimenta con tutta la sua carica di misteriose attribuzioni.
L’artista, rabdomante risoluto, è sempre alle prese con la sostanza che questo colore comporta, vi cerca lo spirito interno, lo percuote, lo interroga incessantemente fino a sentire le sue voci più soffocate e, con l’abilità adeguata del minatore, ne coglie tutta la raffinata valenza cromatica. Dopo averlo bene esplorato, lo affida alla visione dei più curiosi e attenti visitatori dell’animo umano, i quali sapranno leggervi messaggi chiaramente espressi, ma anche tutte le fratture, le derive, gli enigmi che racchiude.

Un colore ancestrale

Ogni artista partecipante a CromoNero ha sempre avuto, ed ha, una particolare sensibilità e attenzione verso il Nero, cogliendo in esso la sostanza più profonda delle proprie ricerche cromatiche e delle proprie derive espressive, senza farsi mai coinvolgere negativamente dal mistero che emana e che rappresenta e ben sapendo che anche il nero viene colto attraverso la sua risonanza interna, la funzione psichica di base, la posizione occupata nella genesi dello spettro dei colori e il suo significato interiore. Ma viene colto anche in assonanza con stati d’animo, oggetti, suoni, memorie. Così, per esempio, del giallo diciamo che è il tipico colore terreno ed è rappresentazione cromatica della follia, mentre il blu si vuole che appaia come il colore del cielo, che rimanda alla profondità, che indica all’uomo l’infinito e che assomiglia al suono del violoncello.

Contrasti fondamentali

Il nero costituisce uno dei contrasti fondamentali dei colori in quanto si contrappone sempre al bianco. Il contrasto in questione rappresenta così il limite del movimento cromatico: il bianco è simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi, dove regna un gran silenzio, e tuttavia vi è la possibilità della rinascita; il nero invece si cerca di assimilarlo al nulla privo di possibilità, silenzio eterno. L’artista però si ribella a tale considerazione accademica e cerca di dimostrare sempre che il nero è il vero portatore delle motivazioni profonde della creazione, lo “spirito” acceso di ogni autentica ricerca estetica entro la quale nasce e si sviluppa l’azione emotiva, gestuale, concettuale dell’agire espressivo.

 

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