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Da maggio a ottobre l’Italia è tutta una sagra. Si celebrano santi, cibi e avvenimenti storici.

Sono feste che spesso ricordano eventi remotissimi, conosciuti solo attraverso leggende e tradizioni orali, o rievocati in nome di un passato glorioso che poi così glorioso non è stato mai. Una sagra che mi ha incuriosito è quella che si festeggiava a Gualdo Tadino: La Notte Blu –  il Medioevo nella città della cuccagna.

Qui appaiono subito due parole chiave: cuccagna e blu, ma dietro tutto questo c’è il guado. Quante parole sono state in auge e hanno caratterizzato un’epoca ma quante parole abbiamo dimenticate e di quante parole non conosciamo più il significato. Una di queste è Cuccagna, l’altra Guado e aggiungiamo anche il Blu ma per altri motivi.

 

Il Paese della cuccagna

Che cos’è la cuccagna?

La cuccagna per secoli ha significato benessere; anzi dicendo il paese di cuccagna si indicava semplicemente il luogo dove ci si poteva sfinire di mangiare e bere. È un termine strettamente legato alla fame, quella che ha torturato i nostri antenati.  Tutte le favole e i racconti che, partendo dal medioevo arrivano all’800, narravano del mitico paese di cuccagna.

Boccaccio ne parla nel Decamerone e lo chiama Paese di Bengodi; ne parla anche Manzoni nei Promessi Sposi.

 

“Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; …era veramente pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. — È pane davvero! — disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: — così lo seminano in questo paese? In quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? che sia il paese di cuccagna questo?” (Alessandro Manzoni – Promessi Sposi- cap. X).

 

Se il paese di cuccagna è una favola, il pays de cocagne è esistito davvero e non era uno solo. Il principale era in Francia vicino a Tolosa, poi ce ne sono stati altri anche in Italia: in Lombardia, a Sansepolcro, a Città di Castello e anche a Gualdo Tadino. Sono luoghi che per qualche secolo hanno goduto di un notevole benessere dovuto alle coque da cui cocagne e in italiano cuccagna. Tutta questa cuccagna è legata alla coltivazione della pianta Isatis Tinctoria detta GUADO, una pianta che forniva il colore blu per tingere i tessuti, le lane e anche le ceramiche. La coltivazione della pianta e l’estrazione del colore erano operazioni complesse ma alla fine si ottenevano dei pani di pigmento azzurro che in francese si chiamavano coque.

I tanti colori

Il colore guado era bello, era un azzurro tendente al verde ma, come per tutti i coloranti naturali, l’intensità del colore variava a ogni raccolta, in funzione delle condizioni climatiche e dell’ora della raccolta, fattori ai quali si doveva aggiungere il problema legato ai colori naturali: l’instabilità e la fotosensibilità.

 

Colore guado

 

La terza parola chiave è blu, anzi azzurro, che deve il suo grande successo alla religiosità medievale. In epoca romana il blu non veniva usato perché era un colore barbaro. I barbari con cui si scontravano nella selvaggia Europa si tingevano il viso di blu. Per i Romani, invece, il colore regale era il rosso porpora. Infatti, nelle prime rappresentazioni musive cristiane, quelle del IV secolo, gli apostoli vestono la toga dei senatori romani orlata di porpora. Il cristianesimo ha cambiato il colore, perché ha alzato lo sguardo in alto dove ha visto la Fede; la prima delle virtù teologali, poi ha visto che il cielo è azzurro e trasparente e lo ha preso come simbolo di purezza e trasparenza dell’anima.

L’azzurro in seguito ha acquistato sempre più prestigio ed è diventato un colore regale. Tutti volevano qualcosa azzurro come il manto della Madonna. Se il mercato vuole cose azzurre va accontentato. Allora via con l’Isatis Tinctoria, coltivata da tutti e voluta da tutti. Passata però la mania dell’azzurro le coques sono decadute. Poi con l’arrivo dei coloranti sintetici ci si è liberati da molti problemi e anche dell’Isatis Tinctoria.

Oggi, grazie al revival di ricerca sui prodotti naturali e sulle piante che sono state usate per secoli e che poi sono state abbandonate, all’Università di Perugia si studia anche la pianta del guado. Mentre tra le poche tradizioni legate all’azzurro che ancora sono rimaste vive una è quella inglese che vuole che le spose, al momento delle nozze, indossino qualcosa di azzurro come simbolo di purezza e sincerità.

«È una terra profumata che evoca i colori del giallo, del verde e dell’arancione».

L’intervista a Emanuela Aureli inizia subito con una battuta: «Vi occupate di eccellenze, perché intervistate me?!». Intervistiamo lei perché è un’eccellenza umbra nel suo lavoro. Nata a Terni, l’attrice e imitatrice è simpatica e cordiale, mentre parliamo al telefono saluta i vicini e mi confessa che sta sistemando casa: «Se ho il fiatone è perché sto facendo le pulizie». La chiacchierata è divertente, come se ci conoscessimo da tempo e con naturalezza iniziamo a parlare della nostra regione.

attrice-imitatrice

Emanuela Aureli

Qual è il suo legame con l’Umbria?

Ho un legame molto forte: è la mia terra di cui vado molto fiera. In Umbria ho la mia famiglia, ho ricordi legati a tanti momenti della mia vita e da nomade faccio la spola tra Roma e Terni, vivendo un po’ qua e un po’ là. Mio figlio è nato a Perugia: si deve andare al di là della rivalità sportiva tra le due città. Da non tifosa di calcio non riesco proprio a capirla.

Come si fa ad arrivare in televisione e avere popolarità, partendo da una frazione di Terni?

Fin da piccola sapevo e sentivo che avrei fatto questo lavoro. A cinque anni ho avuto una premonizione, un destino già scritto. Me lo sentivo dentro e sono riuscita a realizzare il mio sogno. Tutto è iniziato nel 1992 quando mia mamma – a mia insaputa – mi inscrisse alla Corrida. Facevo già delle imitazioni, ma avevo anche paura, infatti inizialmente mi arrabbiai. Lei mi spronò dicendomi: «Vai, provaci!». Quindi partecipai imitando Al Bano e Romina, Patty Pravo e Mietta. Vinsi la puntata e da quel momento tutto è iniziato. In un certo senso è stata mia mamma a farmi entrare in questo mondo.

Attrice, imitatrice e personaggio tivù: qual è la professione che sente più vicina?

Tutte e tre. In televisione devi essere preparato su tutto e studiare. A breve ho un provino per una fiction, spero vada bene. Bisogna essere sempre pronti.

C’è un personaggio che vorrebbe imitare, ma ancora non ha fatto?

Molti. Il primo che mi viene in mente è Adriano Celentano. È un personaggio molto sfruttato ed è molto difficile rendere al meglio la sua voce.

Per non cadere nell’imitazione che tutti fanno?

Preferisco che resti un’icona.

Se dovesse imitarla, come rappresenterebbe l’Umbria?

Metterei in mostra la gente genuina con la sua grande umanità. Poi i colori delle vallate e il profumo dell’erba e della terra. Spesso ci accusano di essere chiusi, io non lo credo affatto. Anzi, siamo molto ospitali, abbiamo sempre accolto. Non mi riconosco in questa chiusura e non la sento nemmeno. Chi viene a visitare l’Umbria si accorge della nostra ospitalità: in molti me lo hanno detto.

So che realizza dei quadri: ha mai rappresentato la sua terra?

Invece di andare in palestra, dipingo. Mi piace molto e mi rilassa. Spesso ho dipinto l’Umbria, le sue vallate, i suoi colori e la sua luce. È una terra luminosa: gialla, arancione e verde. Adoro i nostri paesaggi e da poco ho messo su tela Collesecco. Mi piacerebbe fare una mostra, portare i miei quadri anche all’estero.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Familiare, accogliente, calda.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Il profumo dell’aria di casa.

Sabato 8 Aprile 2017, presso lo Spazio Arte Valcasana (Scheggino – PG), nell’ambito della manifestazione Diamante Nero, è stata inaugurata la mostra d’arte internazionale CromoNero, con la presentazione del Sindaco di Scheggino Paola Agabiti e del curatore Graziano Marini.

mostra scheggino

Gli artisti coinvolti

La mostra è stata organizzata con il contributo, oltre a quello di Graziano Marini, di Pino Bonanno e Franco Profili. Il periodo della mostra sarà dall’8 Aprile al 1 Maggio 2017. Trentacinque sono stati gli artisti coinvolti nell’evento: Afro, Valentina Angeli, Enrico Antonielli, Chiara Armellini, Gianni Asdrubali, Romeo Battisti, Pino Bonanno, Sestilio Burattini, Tommaso Cascella, Bruno Ceccobelli, Piero Dorazio, Marino Ficola, Giuseppe Friscia, Benvenuto Gattolin, Giuliano Giuliani, Eugène Ionesco, Davide Leoni, Annamaria Malaguti, Graziano Marini, Arianna Matta, Saverio Mercati, Kristina Milakovic, Gianluca Murasecchi, Franco Profili, Giosuè Quadrini, Virginia Ryan, Raffaele Ricci, Roberto Ruta, Antonio Sammartano, Pino Spagnulo, Giulio Turcato, Xavier Vantaggi, Emilio Vedova, Franco Venanti, Paul Wiedmer.

Il nero del Diamante

L’evento CromoNero è concomitante con la tradizionale festa del Diamante Nero, ovvero la festa del tartufo nero, prodotto tipico del territorio apprezzato in tutto il mondo. La decisione di realizzare tale progetto espositivo ha presupposto una particolare sensibilità a far sì che il Nero fosse sentito come riferimento importante per ogni azione creativa d’arte visiva, sia essa espressa attraverso la pittura, sia attraverso la scultura.
Si è consapevoli che, quando ci si esprime con il colore, si evocano sempre sensazioni, emozioni e ricordi; Jung sosteneva che esso porta in sé un significato più ampio, inconscio, che non è semplice da definire o spiegare completamente. Quando la mente ne esplora il significato suscita idee che vanno oltre la razionalità. Infatti scrisse: «Il nero è il colore delle origini, degli inizi, degli occultamenti nella loro fase germinale, precedente l’esplosione luminosa della nascita».

Il colore del mistero

Nell’arte, il bianco e il nero sono colori-non colori, per molti versi sopportati, altre volte ossessivamente analizzati. Hanno la capacità di contenere tra loro l’intero universo, come il senso dell’infinito. Sono gli eccessi di uno stesso mondo.
Sappiamo che, soprattutto il nero, corrisponde alla schematizzazione cromatica delle prime domande che l’uomo si è posto, in quanto assorbe, non respinge, attrae.
È il colore del mistero. Non si sa quali risposte contenga e nasconda, ed è questa la grande sfida che attira e coinvolge gli artisti, presi come sono a cercare l’altro da sé, l’oltre inesplorato, l’evocazione di ogni orizzonte che sfugge e allontana il tempo.

L’artista sa bene che il seme per germogliare deve essere sepolto nella terra, nell’oscurità, ma sa anche che il messaggio che ci trasmette contiene elementi di vitalità e inquietudini ancestrali. Il tartufo nero, nella sua conformazione strutturale, rappresenta bene questo senso di fragile inconsistenza dell’esistenza. La sua asperità e la sua “fragranza” interna si contrastano, ma si accolgono per rappresentarci completamente il senso ultimo della vita. Perché, come nella favola di Eros e Psiche di Apuleio, l’amore prospera al buio e il nero costituisce l’elemento più adatto a rappresentarlo se si sanno cogliere le varie sfumature che esso comporta, conferendo un senso del sacrificio, tenacia, pessimismo, abnegazione e risolutezza nel perseguire le proprie emozioni.

«Il nero mi ossessiona»

Mirò diceva: «Il nero mi ossessiona, non esiste altro colore con così tante qualità e sfumature, è il paradiso della pittura, è l’inizio e la fine», mentre Van Gogh sosteneva che il nero va considerato come la più luminosa combinazione dei più scuri rossi, azzurri e gialli. Ovvero racchiude una concentrazione infinita di colori caldi e per questo va “vissuto” come se fosse un alito che ci alimenta con tutta la sua carica di misteriose attribuzioni.
L’artista, rabdomante risoluto, è sempre alle prese con la sostanza che questo colore comporta, vi cerca lo spirito interno, lo percuote, lo interroga incessantemente fino a sentire le sue voci più soffocate e, con l’abilità adeguata del minatore, ne coglie tutta la raffinata valenza cromatica. Dopo averlo bene esplorato, lo affida alla visione dei più curiosi e attenti visitatori dell’animo umano, i quali sapranno leggervi messaggi chiaramente espressi, ma anche tutte le fratture, le derive, gli enigmi che racchiude.

Un colore ancestrale

Ogni artista partecipante a CromoNero ha sempre avuto, ed ha, una particolare sensibilità e attenzione verso il Nero, cogliendo in esso la sostanza più profonda delle proprie ricerche cromatiche e delle proprie derive espressive, senza farsi mai coinvolgere negativamente dal mistero che emana e che rappresenta e ben sapendo che anche il nero viene colto attraverso la sua risonanza interna, la funzione psichica di base, la posizione occupata nella genesi dello spettro dei colori e il suo significato interiore. Ma viene colto anche in assonanza con stati d’animo, oggetti, suoni, memorie. Così, per esempio, del giallo diciamo che è il tipico colore terreno ed è rappresentazione cromatica della follia, mentre il blu si vuole che appaia come il colore del cielo, che rimanda alla profondità, che indica all’uomo l’infinito e che assomiglia al suono del violoncello.

Contrasti fondamentali

Il nero costituisce uno dei contrasti fondamentali dei colori in quanto si contrappone sempre al bianco. Il contrasto in questione rappresenta così il limite del movimento cromatico: il bianco è simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi, dove regna un gran silenzio, e tuttavia vi è la possibilità della rinascita; il nero invece si cerca di assimilarlo al nulla privo di possibilità, silenzio eterno. L’artista però si ribella a tale considerazione accademica e cerca di dimostrare sempre che il nero è il vero portatore delle motivazioni profonde della creazione, lo “spirito” acceso di ogni autentica ricerca estetica entro la quale nasce e si sviluppa l’azione emotiva, gestuale, concettuale dell’agire espressivo.

 

Per saperne di più su Scheggino

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Se esiste un modo di viaggiare etico e in piena armonia con i luoghi è sicuramente in mongolfiera. Peter Kollar è un pilota ungherese che ha vissuto per lungo tempo in Nuova Zelanda e da quattro anni si è trasferito con la sua attività tra le dolci colline tra Bevagna ed Assisi. Si prende cura dei suoi passeggeri facendo viveve loro un’esperienza unica e totalizzante. Tutto inizia una mattina alle sei, con il bel tempo e i venti moderati. Dalla Cantina Dionigi parte un minibus che conduce alla pista poco distante. L’equipaggio si prepara per l’operazione di gonfiaggio con i ventilatori industriali che producono il vento: si assiste così alla rinascita dell’enorme sfera arancione, che sembra svegliarsi insieme al sole.

Il lento fluire del tempo

Alta, gonfia e carica di persone è pronta per il decollo. Si accendono i bruciatori e lentamente s’innalza. In quel momento ci si accorge della magia che pervade ogni cosa: tutto intorno è silenzio, è lentezza. La natura penetra e ingloba l’enorme mongolfiera, le indica la rotta dirigendosi a volte verso Assisi, a volte si scorge il lago Trasimeno, con un cambio repentino di paesaggi e di colori. Sospesi, si sorvolano le ampie distese di grano e poi i gialli girasoli, gli oliveti e i filari d’uva. Un viaggio panoramico che, come in un flashback, riporta alle origini. In quell’ora padroneggia il silenzio, mentre gli sguardi voraci raccolgono tutto ciò che avviene giù sotto cercando di interpretare ogni dettaglio. È tutto talmente lento che si dimentica il tempo che passa e, mentre si scende sul primo campo non coltivato individuato dal pilota, ti ritrovi protagonista di quel paesaggio.

Una tavola imbandita

Arrivati a terra c’è la navetta ad aspettare e si raggiunge la cantina da dove si è partiti. L’esperienza continua, non si ferma qui.
Ad attendere, in cantina, una tavola colma di profumi e sapori prelibati provenienti dai prodotti tipici di queste zone e accompagnati da dell’ottimo vino prodotto proprio qui. Ancora negli occhi i paesaggi sorvolati che si riscopre, in quei sapori, tutta la terra appena attraversata. In alcuni casi, soprattutto negli eventi più esclusivi, la colazione viene allestita all’aperto, nella vicina chiesetta della Madonna Pia con tovaglie tessute dagli artigiani di Montefalco e le ceramiche di Deruta decorate a mano. La stagione da maggio a settembre ha una gamma di colori così ricca che ogni viaggio è diverso, la natura regala emozioni ed il viaggiatore si sente parte integrante del paesaggio, fuori dal contemporaneo: quasi come far parte di un antico dipinto.

 

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