Il dentista ha riportato in auge il protocollo di implantologia di scuola italiana e ora, con un master all’Università internazionale per la pace dell’ONU, lo spiega ai professionisti del settore.
Il professor Giuseppe Maria Famà si presenta con un bel sorriso che colpisce, e non può essere altrimenti. Insegna alla scuola italiana di implantologia all’Università Internazionale per la Pace dell’ONU a Roma e in giro per il mondo (dalla Cina a Cuba, dal Brasile al Marocco, dagli USA all’Ungheria e in molti altri Paesi); è anche consulente in diversi studi (Nizza, Budapest e Bucarest). Presidente della Società Italiana di Odontoiatria Operativa (SIOO) e vicepresidente della Società Italiana di Estetica Dentale (SIED) ci confessa che, dopo la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Perugia, avrebbe voluto specializzarsi in chirurgia estetica, un mondo che lo affascinava molto.
«A causa di varie vicissitudini della vita cambiai e mi specializzai in odontostomatologia, ma nel mio studio di Perugia ci occupiamo anche di chirurgia estetica perché sono convito che un bel sorriso debba essere incorniciato anche da un bel viso».
Professor Famà, lei è un umbro d’adozione, è nato a Grottaglie (Taranto): qual è però il suo rapporto con questa regione?
Non sono nato in Umbria, ma è come se lo fossi. Mio padre era un militare e per i primi sei anni della mia vita ho vissuto in diverse città italiane; poi siamo arrivati in questa regione dove ho messo radici. Ho girato – e giro – molto per lavoro, ma l’Umbria è il posto dove tornare, anche se mi sento un po’ figlio del mondo.
Da quanto tempo vive qui?
Da oltre 60 anni, ho passato quasi tutta la mia vita in Umbria. Spoleto, Foligno e poi Perugia dove ho frequentato l’università e dove mi sono fermato anche professionalmente.
Per lavoro è stato in tante parti del mondo (Cina, Giappone, America, Marocco, Ungheria, Uruguay, Brasile, Argentina…): c’è un posto che le è rimasto nel cuore?
Sicuramente Miami dove ha studiato mio figlio e dove mi reco spesso. Poi l’Ungheria, in cui nel 2005-2006 ho lavorato e vissuto; tuttora ho un appartamento a Budapest. Proprio all’Università di Budapest sono stato relatore e tutor in corsi teorico-pratici per medici italiani e stranieri.
Oggi è direttore del master di implantologia di scuola italiana presso l’Università Internazionale per la Pace dell’ONU: ci spieghi brevemente di cosa si tratta.
Ci proverò. Nel 2015 fui invitato a una conferenza a Madrid: lì diversi colleghi spagnoli, durante una cena, iniziarono a parlare degli impianti di scuola italiana. Si trattava di impianti dentali nati in Italia tantissimi anni prima, che però commercialmente erano stati presto sostituiti da nuove filosofie, come l’implantologia svedese. Decisi allora di riattivare quella metodologia che oggi è tornata molto in auge, grazie anche a questo master. Il master – che è terminato proprio qualche settimana fa – quest’anno ha avuto un grande successo: hanno partecipato colleghi arrivati dalla Russia, dall’Iraq, dall’Albania, dalla Francia, dal Lussemburgo, dalla Spagna e dalla Germania. Abbiamo già iscrizioni per quello che partirà a febbraio 2024. Il tutto si svolge all’interno dell’Università Internazionale per la Pace dell’ONU costituita nel dicembre del 1980 grazie a una risoluzione dell’ONU che voleva premiare il Costa Rica (in cui c’è la sede principale) per aver demilitarizzato la nazione. Lo scopo di questa università è fornire l’umanità di un istituto internazionale di istruzione superiore per la Pace per promuovere lo spirito di comprensione, la tolleranza e la convivenza pacifica tra tutti gli esseri umani. È presente in diversi Paesi; la sede di Roma – dove insegno – è responsabile per tutto il bacino del Mediterraneo e rilascia un titolo valido nei 193 paesi dell’ONU.
Qual è la differenza tra le due metodologia d’impianto?
La scuola italiana prevede la sostituzione immediata dei denti mancanti con un elemento artificiale: un paziente arriva senza denti o toglie un dente e, nella maggioranza dei casi, esce dallo studio, lo stesso giorno, con un nuovo impianto. Questo è molto importante in una società veloce e dove si mira a essere sempre perfetti. La scuola svedese invece aveva un iter più lungo perché prevedeva l’inserimento di una vite nell’osso che rimaneva nascosta e poi, a distanza di 4/5 mesi, veniva funzionalizzata. Con gli anni però anche questa metodologia si è più sveltita, ma con tecniche sicuramente molto impegnative e più lunghe rispetto alla scuola italiana. Il mondo dell’implantologia sta andando verso risultati sempre più rapidi e si cercano soluzioni meno invasive: in questo la metodologia italiana ha fatto scuola. Inoltre parliamo di impianti particolari, di spessore ben definito e che si adattano anche alle gravi perdite di osso. Insomma, la disputa tra queste due scuole è ripartita.
Quanto è importate avere una dentatura sana?
È molto importante perché il sorriso è il biglietto di presentazione di ognuno di noi. Spesso una persona non sorride o ha difficoltà a farlo per la mancanza di denti o perché ha denti non curati: questo condiziona anche il suo atteggiamento sociale. Un bel sorriso apre il mondo, a qualsiasi età. Proprio per questo, circa 15 anni, fa ho studiato questo protocollo – pubblicato anche a livello internazionale – rivolto anche a persone molto anziane e portatrici di dentiere. Con degli impianti molto piccoli, che in pochissimo tempo vengono inseriti all’interno dell’osso, si può rendere stabile la protesi mobile. Grazie a questa tecnica poco costosa e poco invasiva una persona cambia vita anche a un’età più avanzata. Ho presentato questo protocollo nel 2010 a Cuba, ed è stato accolto benissimo anche perché parliamo di protesi a basso costo e accessibili.
È stato presidente regionale in Umbria di judo-lotta-karate-arti marziali dal 2004 al 2012: pratica ancora questo sport?
Lo pratico meno rispetto a prima, ma avendo una scuola di arti marziali a Spello, che gestisco con mio fratello, ancora faccio parte di questo mondo. Provo ad allenarmi e avrei ancora voglia di competere: non è detta che il prossimo anno non mi presenti a qualche gara. La scuola è stata aperta da mio padre nel 1971 – uno dei pionieri del judo in Italia – che ci ha lasciato questa eredità, anche emotiva. Da qui sono usciti tanti campioni che si sono affermati in gare ufficiali e molti sono arrivati in Nazionale.
Ha ricoperto anche la carica di presidente del Lions Club Perugia Host: cosa ha significato per lei questa esperienza?
La presidenza dei Lions per me è stata una grande sfida. Mi piacciono molto le sfide: prendere qualcosa che non esiste e cercare di dargli un senso e un valore; è una competizione che faccio con me stesso, non è certamente per dimostrare agli altri quanto sono bravo. Mio padre mi ha sempre insegnato che la sfida più importante è superare sé stessi. Oggi sono arrivato a questo traguardo, domani riuscirò a fare meglio? Anche da presidente dei Lions ho cercato di dare il massimo: l’anno scorso eravamo tra i club più importanti d’Italia e anche tra i più numerosi, e questo era uno obiettivo che mi ero prefissato. Abbiamo portato a termine grandi cose, eventi e service importanti. Ricoprire questo ruolo mi ha dato molta soddisfazione, ho avuto la possibilità di coinvolgere anche le istituzioni così da raggiungere ottimi obiettivi: è stato un anno molto impegnativo ma, quando l’impegno è ripagato dalla soddisfazione, la fatica non si sente. Ovviamente il mio coinvolgimento non è terminato con la fine del mandato: si è Lions per sempre e si può abbracciare questa filosofia di vita anche se non si è iscritti al club. Credo che aiutare gli altri fa stare bene, quindi, quando ci riesco mi sento meglio.
Per concludere, come descriverebbe l’Umbria in tre parole?
L’Umbria è una bellissima regione, ha dei luoghi stupendi che sono sotto i nostri occhi, ma che spesso non apprezziamo o addirittura non conosciamo. È una continua scoperta e credo sia importante pubblicizzarla ancora di più e far conoscere i suoi luoghi e il suo cibo. Occorre dare valore a queste eccellenze.
Agnese Priorelli
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