Che Veronica Giuliani fosse la santa di Città di Castello lo sapevo fin da adolescente, ma non ricordo per quali vie ero giunto a tale conoscenza.
La ritrovai, Veronica, in un dipinto nel monastero della Clarisse sul Lago d’Iseo, ormai adulto, e me ne innamorai: la pensai assiduamente, fino a dover scrivere un libro su di lei quasi per placare questa sete di contatto. Nonostante fosse più grande di me di ben 290 anni (nacque a Mercatello sul Metauro, nelle Marche, il 27 dicembre 1660, e io sono del 1950) qualcosa mi legò a lei. Qualcosa di spirituale? Sì, ma non solo; credo che tra noi – e capisco che l’espressione sia del tutto impropria – esisteva un elemento erotico.
La storia
Nel 1678, all’età di 18 anni, Veronica arriva a Città di Castello, dove conosce le Clarisse Cappuccine, monache francescane di stretta clausura fondate nel 1535 dalla nobildonna spagnola Maria Requenses Longo, vedova dell’italiano Giovanni Longo. Il nome della congregazione, in esteso, è Ordine di Santa Chiara delle Cappuccine. Nell’inverno del 2006 giunsi a Città di Castello. Un’occasione imprevista di lavoro (o forse un’energia arcana) mi aveva condotto nella cittadina umbra. Là gli anni più oscuri del tardo Medioevo riverberano dalle mura dei palazzi nobiliari e degli antichi conventi. L’anacronismo religioso è cultura dominante, una mescola di devozione e superstizione. La magia nera, fatta di bamboline trafitte da spilli e chiodi arrugginiti, si incontra facilmente nei rapporti con le persone, nei racconti di vita e nel dolore delle famiglie tifernati.
Il piccolo albergo dove solitamente alloggiavo era ubicato nel centro storico, a pochi passi da un crocicchio di quattro strade dove si affacciano ben tre conventi di monache di clausura. Una vecchia leggenda, ormai poco nota agli stessi abitanti del borgo, narra che in quell’incrocio – dove la via Dei Lanari si immette nella via Fucci intersecando Corso XI Settembre – si trovasse il punto di convergenza delle Linee del Male. Cosa esse fossero non è chiaro, ma si dice che lì venissero a condensarsi particolari energie negative e diaboliche provenienti dai quattro punti cardinali. Il Monastero delle Murate, la cui struttura perimetrale costituisce l’intera via dei Lanari, dovrebbe essere stato il primo baluardo sorto in opposizione alle nefaste influenze del Maligno; dalla parte opposta, in via Fucci, si trova il Monastero delle Clarisse di Santa Cecilia e, su Corso XI Settembre, quello delle Cappuccine, in cui Veronica Giuliani trascorse l’intera vita claustrale.
In un vicoletto, retrostante il complesso di Santa Cecilia, adiacente a un portone di legno marcio che introduceva a un piccolo orto, c’era, appesa al muro, una sorta di bacheca composta da vecchie assi, probabilmente di proprietà di un mago o di una fattucchiera. Erano esposti, in bella mostra, gli affatturamenti e le malie che questi sinistri personaggi compivano per i loro clienti: rospi trafitti da spilloni, ciocche di capelli annodati da nastrini rossi, bamboline di stoffa inchiodate a un cuore di cartone con un grosso ago. Sul far della sera spesso passavo per quella stradina per cenare in una trattoria poco distante e a volte scorgevo le sagome di individui che sostavano di fronte all’insolito altarino, quasi assorti in preghiera. Il clima, certamente tetro e inquietante, soprattutto d’inverno, col venire avanti delle prime ombre della notte, scoraggiava il passaggio dei viandanti comprensibilmente timorosi: qualcuno transitava rapidamente e senza guardare, altri sceglievano un tragitto più lungo al fine di evitare quel luogo. Io non avvertii mai sentimenti di paura, quanto piuttosto di pena, quasi che il dolore di cui era intrisa quella porzione di vicolo si facesse palpabile e divenisse la trama di storie di amori disperati, di speranze infrante e di fallimenti, di rancori mai sopiti e di non placati desideri di vendetta; povera gente, pensavo, mentre diveniva nitida la consapevolezza di come la condizione umana sia sempre drammatica. Da lì, in meno di trecento passi, si arriva al Monastero di Santa Veronica. La Santa mi aspettava chiusa nella teca di vetro, dentro alla piccola cappella sotto la grata ferrea che separa il coro delle monache dalla parte di chiesa riservata ai laici. Era bella anche da morta, col suo corpo esile mummificato avvolto dall’abito religioso delle Clarisse.
Veronica Giuliani è certamente una grande mistica cattolica, proclamata dottore della Chiesa e resa agli onori degli altari da Papa Gregorio XVI nel 1839. Trascorse una vita di intensissima penitenza; stese un diario di migliaia di pagine per 34 anni, in un italiano confuso e sgrammaticato, descrivendo il proprio percorso di unione con Dio e le relative, incredibili esperienze sovrannaturali. Molti passi del diario mettono in luce una relazione col Cristo intrisa di un amore profondo, travolgente, passionale, che in certi tratti sembra avere addirittura una valenza erotica e risvolti sadomasochisti. Nel venerdì santo del 1697 riceve le stigmate e viene indagata dal Sant’Uffizio, da cui subisce ripetute umiliazioni, anche messa alla prova da mortificanti punizioni corporali. Nel 1703 è pienamente assolta e le vengono restituiti i diritti capitolari. Diviene Badessa del monastero di Città di Castello il 5 aprile 1716 e qui morirà, già in odore di santità, il 19 luglio del 1727.
Il mio breve saggio, il cui sottotitolo è Introduzione ad un’analisi realistica della personalità di Veronica Giuliani, la Santa di Città di Castello (Cf. Veronica – Ed. EVA, 2008, prefaz. del Prof. Gianangelo Palo) è prevalentemente finalizzato a indagare se le eccezionali esperienze mistiche di Veronica Giuliani siano il frutto di una personalità schizoide e autolesionista o abbiano una loro dignità ontologica e sovrannaturale. Pongo la domanda, ma mi astengo dal dare una risposta definitiva.
Le Clarisse Cappuccine
Il monastero della Clarisse Cappuccine di Città di Castello nacque su un fondo acquistato dalle monache nel 1630. La costruzione dell’intero complesso durò 13 anni. Al tempo in cui Veronica fece domanda come postulante (1677) era tradizione della maggior parte degli Ordini religiosi femminili richiedere alla famiglia della probanda una dote, di solito abbastanza cospicua, da portare in offerta alla comunità.
Questa consuetudine non era applicata nella congregazione delle Clarisse Cappuccine di Città di Castello, dove il voto di povertà veniva considerato, sia in senso individuale sia collettivo, in maniera radicale. La giornata di una monaca di clausura del XVII secolo non era molto diversa da quella che vive una religiosa di oggi: certo, i rigori della vita claustrale sono stati mitigati soprattutto dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II; in molti conventi sono comparsi il riscaldamento, l’acqua calda, gli elettrodomestici, fin anche gli strumenti informatici, ma le ore di preghiera, le pratiche devozionali e penitenziali, i silenzi, sono rimasti più o meno quelli, retaggio di una tradizione secolare. Ma ciò che non è cambiato e mai cambierà è la strana commistione di santità e debolezza umana, di umiltà e orgoglio, di audacia e viltà, di anelito alla trascendenza e invischiamento nella materialità più meschina, di tenacia psicologica e fragilità, che sempre ho trovato in queste comunità femminili (forse non da meno sono quelle maschili), dove il fervore spirituale si mescola sovente a sentimenti assai meno nobili. D’altra parte convivere per anni e anni nel contesto della vita cenobitica, fianco a fianco, con penuria di stimolazioni esterne, investimento libidico nullo (fosse anche per innocui oggetti di desiderio) costringe a fenomeni di amplificazione della realtà interiore, delle proiezioni, che non di rado aprono l’accesso alla dimensione psicopatologica. Invidie, rancori e dispettucci sono altrettanto frequenti degli slanci d’abnegazione, dei nascosti ed eroici sacrifici, delle notti di fervida preghiera.
La giornata delle monache di Santa Chiara inizia ben prima delle luci dell’alba con la recita del Mattutino. Seguono le Lodi, l’Ora Terza, poi Sesta e Nona, fino ai Vespri e alla Compieta: con quest’ultima inizia il grande silenzio. Due volte alla settimana, dopo il canto del Vespro le monache Cappuccine si dedicano alle pratiche di mortificazione corporale. Lo strumento penitenziale più in uso è la disciplina, una serie di corde annodate o catenelle metalliche con cui le religiose si percuotono le spalle nude. Spesso indossano anche il cilicio, cintura con punte aguzze che si infliggono nella pelle. Oggi le queste pratiche hanno ormai una valenza simbolica e non arrivano a produrre vere ferite o importate dolore fisico. Veronica Giuliani, invece, con esse si martoriava, si massacrava l’esile corpo, memore della sofferenza patita dal suo amato Sposo Gesù sul Calvario. Come racconta nel diario fu proprio Gesù di Nazareth a proporle di divenire sua sposa in una visione del 1693; lei accetto, aveva 33 anni, come il suo maestro e amante che, come narra la tradizione, alla stessa età salì il patibolo della Croce. Questo amore la divorerà letteralmente per il resto della vita, così ogni penitenza, ogni dolore, ogni sofferenza, ogni silenzio suggelleranno l’unione col suo Cristo-Dio: Deus meus et omnia, recitava di continuo San Francesco, e in questo Tutto si lasciò sprofondare Veronica.
Ancor oggi, affacciandoci nella piccola chiesa dove riposa il corpo della Santa, al numero 21 di Via XI Settembre, un’atmosfera solenne e cupa ci avvolge, mentre il silenzio e la vibrazione di quel luogo vengono a regalarci qualche prezioso momento di lontananza dal frastuono del mondo. Mi sorge la domanda: perché una suora di clausura si fa suora di clausura? Quel silenzio è la risposta.
Redazione
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