Se esiste un modo di viaggiare etico e in piena armonia con i luoghi è sicuramente in mongolfiera. Peter Kollar è un pilota ungherese che ha vissuto per lungo tempo in Nuova Zelanda e da quattro anni si è trasferito con la sua attività tra le dolci colline tra Bevagna ed Assisi. Si prende cura dei suoi passeggeri facendo viveve loro un’esperienza unica e totalizzante. Tutto inizia una mattina alle sei, con il bel tempo e i venti moderati. Dalla Cantina Dionigi parte un minibus che conduce alla pista poco distante. L’equipaggio si prepara per l’operazione di gonfiaggio con i ventilatori industriali che producono il vento: si assiste così alla rinascita dell’enorme sfera arancione, che sembra svegliarsi insieme al sole.
Il lento fluire del tempo
Alta, gonfia e carica di persone è pronta per il decollo. Si accendono i bruciatori e lentamente s’innalza. In quel momento ci si accorge della magia che pervade ogni cosa: tutto intorno è silenzio, è lentezza. La natura penetra e ingloba l’enorme mongolfiera, le indica la rotta dirigendosi a volte verso Assisi, a volte si scorge il lago Trasimeno, con un cambio repentino di paesaggi e di colori. Sospesi, si sorvolano le ampie distese di grano e poi i gialli girasoli, gli oliveti e i filari d’uva. Un viaggio panoramico che, come in un flashback, riporta alle origini. In quell’ora padroneggia il silenzio, mentre gli sguardi voraci raccolgono tutto ciò che avviene giù sotto cercando di interpretare ogni dettaglio. È tutto talmente lento che si dimentica il tempo che passa e, mentre si scende sul primo campo non coltivato individuato dal pilota, ti ritrovi protagonista di quel paesaggio.
Una tavola imbandita
Arrivati a terra c’è la navetta ad aspettare e si raggiunge la cantina da dove si è partiti. L’esperienza continua, non si ferma qui.
Ad attendere, in cantina, una tavola colma di profumi e sapori prelibati provenienti dai prodotti tipici di queste zone e accompagnati da dell’ottimo vino prodotto proprio qui. Ancora negli occhi i paesaggi sorvolati che si riscopre, in quei sapori, tutta la terra appena attraversata. In alcuni casi, soprattutto negli eventi più esclusivi, la colazione viene allestita all’aperto, nella vicina chiesetta della Madonna Pia con tovaglie tessute dagli artigiani di Montefalco e le ceramiche di Deruta decorate a mano. La stagione da maggio a settembre ha una gamma di colori così ricca che ogni viaggio è diverso, la natura regala emozioni ed il viaggiatore si sente parte integrante del paesaggio, fuori dal contemporaneo: quasi come far parte di un antico dipinto.
Sguardi, bocche semiaperte che sembrano sospirare, cantare. Pelle di marmo bianco, velato da una patina di polvere e ragnatele, angeli e fantasmi: il cimitero monumentale di Perugia offre a chi vi passeggi un tour silenzioso tra sculture estremamente assorte e tristemente affascinanti.
Guardiani silenziosi
Situato nei pressi della chiesa di San Bevignate, in una zona che già dal tempo degli Etruschi era adibita a necropoli, il cimitero fu inaugurato nel 1849, e poi ampliato, sui progetti di Filippo Lardoni e Alessandro Arienti. Qui si dispiega un romantico panorama dell’arte scultorea perugina tra Ottocento e Novecento.
L’entrata monumentale apre l’ingresso a tre lunghi sentieri silenziosi, costellati di cappelle e mausolei di ogni stile e fattezze, affascinanti per la loro eterogeneità, tra l’eclettico e l’eccentrico: è il caso della tomba a piramide egizia, completa di severe sfingi all’ingresso (Romano Mignini, Cappella Vitalucci, 1892).
La suggestione più forte si avverte in ogni caso percorrendo le due gallerie coperte ai lati dei campi comuni, progettate dall’Arienti. Una serie di monumenti funebri si susseguono lungo la parete, una volta stellata vi accompagna sotto l’ombra del portico, mentre la luce filtra geometricamente dalle aperture delle arcate bianche e rosa.
A fine taste
Intanto sculture di esseri alati bianchi e ritratti di defunti abitano le gallerie, volgendo gli sguardi altrove o, a seconda della posizione, guardandovi dubbiosamente negli occhi. Molte statue hanno le sembianze di giovani asessuati dai tratti fisionomici dolci e aggraziati, colti in mosse misurate e panneggi svolazzanti.
Si scopre il gusto Liberty diffuso a cavallo tra XIX e XX secolo, interpretato da artisti perugini quasi coetanei, formatisi all’Accademia delle Belle Arti di Perugia.
Molte le opere in questo senso di Giuseppe Frenguelli (1856-1940), scultore perugino: l’angelo in posa ricercata che zittisce dolcemente, fissandovi negli occhi, a guardia del monumento Vicarelli (1895), o quelli musicanti, più scenografici, dai lunghi panneggi fluttuanti, assorti in un canto silenzioso, i quali aleggiano in una composizione complessa sul monumento Rossini (1905).
Atteggiamenti delicati, che conferiscono un’atmosfera di sospensione ed indefinitezza, come l’angelo languidamente seduto sopra il monumento sepolcrale della famiglia Nottari: la testa appoggiata alla mano, il gomito sopra una pila di libri, l’espressione vitrea, tra il vago, il fiacco, l’inerte. Del 1888, firmata da Raffaele Angeletti (1842-1899) e Francesco Biscarini (1838 – 1903), questa è solo una delle tante opere dei due artisti all’interno del cimitero di Perugia, i quali, dopo aver fondato nel 1861 uno studio di scultura, intrapresero l’attività di un laboratorio e una fornace di terrecotte artistiche, in Via del Labirinto.
Allegorie dell'Aldilà
Allegorie epiche accompagnano talvolta i ritratti dei defunti, come le sfingi, questa volta di tradizione greca, che sostengono il monumento funebre della poetessa Maria Alinda Bonacci Brunamonti: le due donne alate, dalle possenti zampe di leone, hanno l’espressione elegante di nobili fanciulle, il collo lungo e i tratti fini; i capelli sono acconciati con una corona di alloro e nastri svolazzanti, in linea con il gusto decorativo liberty. Il monumento fu realizzato nel 1914 da Romano Mignini, con la collaborazione del figlio Venusto; lo scultore aveva frequentato il laboratorio Angeletti – Biscarini, e come i suoi maestri, si era formato all’Accademia perugina.
Tra i personaggi che animano le sculture funebri, le figure dei bambini addolciscono l’immaginario legato ai defunti. Sul monumento della famiglia Pezzolet, firmato Giuseppe Scardovi (1857 – 1924), sta seduto in posa scomposta un bambino dalle fattezze angeliche; mentre lo stesso Giuseppe Frenguelli scolpisce nel 1915, per la cappella della famiglia Pagnotta lungo il viale centrale, un bambinetto aggraziato e immobile nella sua tristezza, i cui fiocchi alle scarpe sono il dettaglio di verosimiglianza che conferisce alla figura l’apparenza funerea di uno spirito bambino.
La visita al cimitero si rivela un viaggio tra una moltitudine di figure, spiriti, e creature celesti scultoree, i quali rivelano simboli e allusioni legate all’universo dei defunti: scoprirle sarà una passeggiata in un museo a cielo aperto, immerso nel silenzio.
Il grande giardino, oggi di proprietà della Provincia di Perugia, ha dietro la sua realizzazione un nome di una donna inglese e una storia: Sarah Matilda Hobhouse e l’amore che portò suo marito, il conte eugubino Francesco Ranghiasci Brancaleoni, ad acquisire progressivamente e sapientemente i terreni e gli orti per realizzare il parco, assecondando i suoi desideri.
Parco Ranghiasci, foto gentilmente concessa dal Comune di Gubbio
Una corte spietata
Sarah Matilda Hobhouse era figlia di sir Benjamin e sorella di John Cam, barone di Broughton, ministro del Regno Unito. Era cresciuta nella Duke’s House all’interno dello splendido Whitton Park a Richmond dove aveva frequentato l’intimo amico del fratello, Byron, e dove era stata corteggiata da Foscolo. Ugo Foscolo le aveva inviato anche un volume delle Rime del Petrarca con la dedica alla «Gentile giovine» e l’aveva chiesta in moglie nel 1824 ottenendo in risposta dal fratello un netto e indignato rifiuto perché il poeta – in esilio, squattrinato e malato – all’età di quarantasei anni aveva osato chiedere la mano di «one of the prettiest girl in England».
Sarah Matilda sposa tre anni più tardi, a Roma, il ventisettenne Francesco Ranghiasci Brancaleoni, giovane, ricco e per di più nobile. Nello stesso anno il marito la conduce a Gubbio nel momento più festoso e bello, perché possa vedere la cittadina umbra sotto la luce migliore: durante la Festa dei Ceri; il suo arrivo desta nella città umbra una grande curiosità, perché la bellissima inglesina porta in dote l’ingente cifra di 60.000 scudi.
Vigne, case e orti
Sarah Matilda deve aver sentito immediatamente la mancanza dei suoi amati giardini, dei colori e degli odori delle piante del parco inglese dove era cresciuta; il marito fin dal dicembre 1831 comincia ad acquistare vigne, case e orti e, in un arco di dodici anni, diviene proprietario dei terreni e dei caseggiati dislocati lungo grandi piani ellittici disposti nel terreno digradante.
La realizzazione del parco inizia tra il settembre e l’ottobre del 1841. Come si apprende dalle memorie del Fondo Armanni «è stata demolita la chiesa di S. Luca al pian terreno de la casa Rosetti che era l’antico monastero di S. Luca, è stato demolito da cima a fondo meno la torre, che resta in piedi quantunque isolata». La testimonianza è importante per comprendere il modus operandi del conte che, fedele al compito di realizzare il parco tanto desiderato dalla sua Sarah Matilda, non risparmia neppure gli edifici storici quando non sono integrabili nel piano organico.
I lavori per la sistemazione del giardino all’inglese continuano fino al 1848: tra il verde di tigli, ippocastani e aceri vengono eretti edifici neoclassici e sistemate rovine medievali.
Un amenissimo boschetto
Parco Ranghiasci, foto gentilmente concessa dal Comune di Gubbio
Entrando nel parco dall’ingresso principale, che si affaccia sull’attuale via Gabrielli, sono ancora oggi visibili due colonne che avrebbero dovuto essere collocate in prossimità della statua di una divinità romana in terracotta oggi perduta. Attraverso il ponte coperto gettato sul Camignano, dalle cui finestre si vede il panorama sulla città medievale, si giunge ai grandi viali che risalgono il declivio, dando vita a un gioco ellissoidale di tornanti. Guardando la città dal muro di cinta volutamente non coperto di vegetazione, Gubbio si rivela in tutto il suo innegabile fascino. Percorrendo una serie di tornanti delimitati da piante diverse che in autunno creano una fantasia di rossi e di gialli, si incontra il villino in mattoni esemplato sullo schema del palazzo Ranghiasci edificato in città. Oltre, una fontana, un tempo abbellita da colonne marmoree, raccoglie le acque provenienti dalle cisterne superiori e le convoglia verso il tornante inferiore che introduce al luogo più nascosto e privilegiato del parco; da lì è visibile, in una zona sopraelevata, un tempietto in stile classico: al centro del timpano è posto lo stemma Ranghiasci con il motto «Virtus omnia vincit».
Parco Ranghiasci, foto gentilmente concessa dal Comune di Gubbio
Al di là del tempietto si giunge, in un luogo nascosto da alberi, alla torre di San Luca. Nel parco erano inoltre state fatte sistemare alcune serre nelle quali venivano coltivati piante e fiori esotici. Un contemporaneo, Stefano Rossi, così descrive il parco appena completato: «un amenissimo boschetto […] che pur piace di molto a dì nostri agli infarinati di patetica letteratura, o a quelli che amano le drammatiche sensazioni».
A Sarah Matilda non dovette però bastare questo grande tributo d’amore del marito per riuscire ad amare l’Italia; a Gubbio non dovette avere una vita molto felice: i due figli maschi, Edoardo Latino e Federico Latino, le morirono in tenera età. Sentì la malinconia dell’Inghilterra e gli echi della sua terra lontana. E proprio in Inghilterra ella si spense, dopo avervi fatto ritorno assieme alla figlia Anne Amelia Latina, al numero 2 di Eaton Square di County nel Middlesex, non molto tempo dopo il 9 dicembre 1853, data del suo testamento.
Tra il 1863 e il 1865 Domenico Golini rinveniva in territorio orvietano, più precisamente in località Poggio del Roccolo di Settecamini, tra Orvieto e Porano, le celeberrime tombe affrescate che da lui presero nome. Si tratta di una coppia di monumenti di eccezionale valore artistico e documentario che costituiscono un unicum nel territorio di appartenenza (ad esse si aggiunga una terza tomba dipinta rinvenuta nella medesima area, pertinente alla famiglia hescanas).
Le pitture parietali, staccate per ovvi motivi di conservazione e sicurezza nel 1950, sono ora esposte presso il Museo Archeologico Nazionale di Orvieto in ambienti che riproducono in maniera fedele gli spazi della loro collocazione originaria.
Tomba Golini I. Banchetto infero alla presenza di Ade e Persefone; restituzione grafica (da P. Bruschetti, Gli Etruschi a Orvieto. Collezioni e territorio, Città di Castello 2006, p. 69).
La Tomba Golini I
La Tomba Golini I, detta anche dei Velii è costituita da un unico, ampio ambiente quadrangolare il cui spazio è bipartito da un tramezzo tufaceo che, partendo dalla parete di fondo, giunge circa a metà della camera sepolcrale. La decorazione pittorica rappresenta una scena di banchetto infero in cui il defunto è colto nel momento dell’arrivo nell’Oltretomba, atteso dai suoi avi intenti nel convito. Di particolare interesse è il modo in cui architettura e pittura si fondono utilizzando parti strutturali, come strumento di separazione materiale e concettuale delle scene figurate; il divisorio tufaceo, infatti, non svolge solo la funzione di ripartire lo spazio, ma separa, nella raffigurazione, la parte servile da quella padronale, ribadendo anche materialmente una fondamentale divisione ideologica e delle due diverse fasi della festa, quella dei preparativi e quella del convito vero e proprio.
Tomba Golini I. Servo con pestelli (da P. Bruschetti, Gli Etruschi a Orvieto. Collezioni e territorio, Città di Castello 2006)
Le scene che adornano il vano di sinistra rappresentano, dunque, l’allestimento del banchetto, mostrando servi e cuochi mentre preparano pietanze accompagnati dalla musica di un flautista, etrusco more; caratterizzata da profondo realismo è la raffigurazione delle bestie necessarie all’apprestamento delle mense, sventrate e appese per le zampe a delle travi, così come l’immagine del servo addetto al depezzamento delle carni. Puntuale è inoltre la fotografia delle altre fasi preparatorie del pasto come mostra la figura dello schiavo colto nell’atto di triturare cibi, forse spezie, con dei pestelli in un grosso bacile a tre piedi, o ancora gli individui preposti all’accensione del fuoco o quelli che imbandiscono una lunga trapeza con vasellame da mensa.
Nel vano di destra è invece raffigurato il defunto che su un carro trainato da cavalli, alla presenza di un genio alato (lasa) giunge nell’Aldilà al cospetto di Ade e Persefone; la coppia infera, assisa su una lettiga, presiede il banchetto cui partecipano gli antenati e i membri della famiglia leinie, titolare del sepolcro, mentre servi ignudi allestiscono sontuoso vasellame in un ambiente rischiarato dalla luce di alti candelabri. Quasi tutti i personaggi raffigurati in entrambi gli ambienti, ed anche gli animali, sono accompagnati da iscrizioni, sorta di didascalie che hanno lo scopo di rammentare la genealogia dei componenti della famiglia, le cariche da essi ricoperte, ma anche le differenti funzioni cui erano preposti i servi.
La Tomba Golini II
La Tomba Golini II o delle Due Bighe consta di un’unica camera sepolcrale a pianta rettangolare su cui campeggiano le scene figurate, purtroppo assai danneggiate e a tratti illeggibili. Il soggetto è in tutto simile a quelle della sepoltura anzi descritta, l’arrivo di una coppia di defunti nell’Ade dove si svolge un banchetto allietato da suonatori di lituo e tromba.
Tomba Golini I. Inserviente che prepara pietanze (da P. Bruschetti, Gli Etruschi a Orvieto. Collezioni e territorio, Città di Castello 2006)
I protagonisti sono raffigurati ai lati della porta di ingresso; l’individuo di sinistra giunge su una biga trainata da una coppia equina; alle sue spalle, lungo la parete, si svolge un corteo composto di sei personaggi che procedono verso due klinai su cui sono rispettivamente assise due coppie di banchettanti che le iscrizioni individuano come personaggi appartenenti alla famiglia cnezus. A destra della porta compare una seconda biga condotta da auriga, oltre la quale, lungo la parete del medesimo lato, compaiono tre klinai in tutto analoghe alle precedenti; i personaggi ivi raffigurati sono individuati dalle iscrizioni quali membri della famiglia vercnas. Le pitture che adornavano la parete di fondo appaiono quasi del tutto deteriorate, fatta eccezione per scarsi lacerti riferibili a figure di guerrieri.
Una scuola pittorica
Entrambi i monumenti possono essere datati alla seconda metà del IV secolo a.C. e mostrano una sostanziale coerenza di concezione che pare indiziare l’esistenza di una bottega o scuola pittorica locale la cui attività cessa, verosimilmente, con la distruzione della città nel 264 a.C.
In conclusione, vale la pena sottolineare come le tombe in esame, oltre a costituire una preziosa e rara testimonianza storico-artistica circa la pittura etrusca di area volsiniese tra epoca tardo-classica e ellenistica, abbiano altresì un fondamentale valore documentario in quanto fotografie degli aspetti quotidiani e delle usanze che caratterizzavano la vita delle aristocrazie dell’epoca. Esse rappresentano, inoltre, una tra le ultime attestazioni del tema figurativo del simposio nell’Aldilà ove vivi e morti banchettano insieme, tema che successivamente scomparirà dal repertorio pittura tombale per lasciare spazio a una nuova concezione del sepolcro che sembra divenire, esso stesso, rappresentazione tridimensionale dell’Ade in cui l’intero gruppo familiare lì sepolto partecipa a un eterno banchetto.
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-M. Torelli (ed.), Gli Etruschi, Milano 2000.