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Dal cuore dell’Italia, il centro, si alza un arcobaleno con tutti i colori della cultura, un manto che bagna Spoleto e Perugia e Narni; Todi è bianca e Amelia arancione. Orvieto, Città di Castello e Gubbio sono città variopinte. Ma tutta l’Umbria è rossa. È rossa di papaveri in giugno, quando i concimi chimici non uccidono il fiore più bello. È rossa d’amore quando canta. Avvampa di rosso quando si vergogna – e ne ha ragione. I colori dell’Umbria esprimono l’arcobaleno spirituale di una regione tra le più belle al mondo.

Rossi i campi di papaveri attorno al tempietto delle fonti del Clitunno, uno dei luoghi più mistici – cantato anche da Virgilio nelle sue Bucoliche. Rossi i tre ceri che adornano lo stemma della regione, i ceri di Gubbio, e a Gubbio troviamo le Tavole Eugubine, chiave per leggere i linguaggi etruschi e umbri.

E persino il Laurana e, fino a poco tempo fa, Gae Aulenti.

E c’è il Trasimeno con il rosso del sangue che colorò il lago quando Annibale si scontrò con le legioni romane: si dice che il nome del centro di Cecanibbi venga da cieco-Annibale, perché lì il generale punico perse la vista. Che ci siano degli scheletri di elefanti dentro a quel lago, così bello, così esteso? Vicino a quel lago ha casa Antonio Pappano, un grande direttore d’orchestra, una bacchetta magica.

Non rovinatela, l’Umbria, non roviniamola, teniamola cara, è preziosa. Anche perché quell’arcobaleno ha una radice eccentrica: la radice è rossa. Le città dell’Umbria si scolorano nell’alba per riaccendersi nel tramonto e infiammarsi di rosso.

Rosso, il colore che più parla alle culture del mondo, la felicità per i Cinesi, il sangue per i Romani, la rivoluzione per i Russi, la porpora per i Fenici, il lusso per il manto dei re. Rosso è amore.

 

PICCOLE GRANDI INDUSTRIE
Politicamente l’Umbria era rossa come tutte quelle regioni che, per troppo tempo, erano state governate dalla Chiesa, impoverite, depauperate dal clero: il centro, il cuore dell’Italia diventò genuinamente rosso, ribelle. Il mondo contadino era stato schiacciato troppo a lungo da un clero ignorante ed esoso e dai feudi impigriti dalla stasi.

La grande industria italiana – impaurita dalla radice rossa del Centro Italia – non aveva messo radici nelle Marche, nell’Umbria o nella Toscana. Fu la sua fortuna: nasceva così la piccola industria, espressione economica di un mondo inventivo che non aveva ricchezze in petrolio o metalli, ma poteva contare su una innata cultura e sul suo senso dell’estetica (vedi Brunello Cucinelli, Luisa Spagnoli, Buitoni e la Perugina).

Mi diceva un regista della BBC: «Ecco perché voi italiani fate dei bei film. Camminate vicino a palazzi, di sfuggita gettate un occhio su un affresco, una ceramica, una fotografia, tessete delle stoffe che poi vi mettete addosso, e ci tenete a come vi vestite, come vi portate. Per esempio, come fai a sapere che quel balcone è del XVII secolo?
Io non ne avrei la minima idea, ma tu ci sei nata e, passando sotto queste finestre, presso queste porte, sai cosa sono e a chi appartengono. Senza quasi accorgertene, ti viene quel senso del bello del quale ogni nato italiano è ricco». Esagerava, direi, ma mi piace riportarlo.

 

UNA CITTÀ A PARTE
Poche settimane fa, a Narni, entrando a San Giovenale assieme a una delle archeologhe-storiche più importanti di Francia (e d’Europa), fui sorpresa al vedere un pianoforte sull’altare. E qualche minuto più tardi, una giovane dai capelli castani si sedeva alla tastiera: «Sto provando per questa sera» mi disse «suono Chopin» e si mise a suonare per noi dentro quel colonnato dai capitelli protocristiani. Un concerto tutto per noi, una meraviglia.

Narni è una città a parte.

Molti anni fa, quando non c’erano i telefonini e le autostrade, mio padre portava noi bambine a esplorare le regioni italiane – la Toscana, l’alto Lazio, l’Umbria. L’anno dell’Umbria (io avrò avuto dodici anni) ci si fermò a Narni: ho ancora delle fotografie in bianco e nero e sbiadite delle fontane a monolito delle due piazze; più avanti nel tempo, dentro uno dei palazzi, mi ricordo, vendevano una delle migliori paste fatte in casa, e sopra al palazzo c’erano le sculture longobarde.

Ultimamente nel piccolo teatrino di Narni davano parte de Il Trittico (Suor Angelica e Gianni Schicchi), gratis. Un mondo a parte.

Purtroppo invece, a Todi, dove il cinema diretto da un gruppo di gente colta e intelligente dava degli ottimi spettacoli, è stato chiuso: i locali appartenevano alla Curia. Pericolo rosso. L’ultimo spettacolo dato in quel luogo, un magnifico Otello in diretta dal Covent Garden di Londra, era emozionante.
Ma quello era l’ultimo spettacolo: la Curia, ostica nei confronti della cultura, tanto per cambiare, si è ripresa i locali.

 

PERICOLO ROSSO
Dal rosso nasceva la moda, il cibo sano, la cucina semplice ormai prediletta da un mondo che ha capito quanto la schiettezza ma anche la bellezza degli ingredienti siano alla base della salute.

Arrosti alla brace, vino rosso che conquistava le tavole, pomodori cresciuti al sole, non in serra.

Ma rosso è anche il pericolo. Che pericolo? Dopo la miseria di anni in Umbria arrivarono un po’ di soldi che si tramutarono in una colata di cemento. Oggi alcuni paesini e città non sono riconoscibili come centri urbani perché hanno perso il centro, la piazza, l’agorà, il polmone sociale.

Con il successo in Umbria arrivò il provincialismo, l’America che portava una cultura diversa, bene per loro, pessima per noi: il gigantismo industriale; il ricominciare tutto da zero. Chi non l’apprezzava era fuori moda e intanto non si sviluppava una voce propria, una voce umbra.

Ma la cultura che nasce dal nulla, quella americana, è la negazione della cultura, la quale invece significa continuità dell’esperienza umana. È la loro una cultura che sfocia in Donald Trump e nel Kentucky Chicken, non va bene in Umbria. E neanche in Italia.

 

ROSSO VIOLENZA
Pericolo quindi, rosso, senso vietato. Ma l’Umbria passa col rosso e deve pagare le multe al senso dell’estetica, alla continuità della sua espressione.

In Umbria è arrivata una squadra di gente di cultura, gente di teatro, di letteratura, di arti visive, musicali: cerca quella pace e quel misticismo che nasce dal Bello. Dovrebbe essere uno dei colori di quell’arcobaleno che illumina questi territori, ma ormai è spaventata dalle notti chiassosissime, musica yeye, rap, al massimo dei decibel, un cemento che nonostante la legge lo vieti, invade e cresce.

Il rumore specie dopo mezzanotte, avanza e distrugge lande che una volta vantavano un centro abitato. Percorrono le strade bianche una volta abitate dagli istrici, le motorette scoppiettanti si sentono a chilometri di distanza. Vanno di moda. È violenza, è rosso-pericolo. Anche il rumore è aggressivo e violento.

Io, straniera in Umbria, sono o sono stata un pericolo a tal punto che, subito dopo il mio arrivo, una Molotov è entrata nella mia automobile; io ero al ristorante con mio figlio e un amico che si chiama Umbro, e al ritorno al parcheggio l’automobile era semi-distrutta. I carabinieri, al telefono, stupiti, chiesero: «Una Molotov? È sicura?».
Arrivarono subito, e sì, constatarono che era una Molotov fatta in casa, ma era sempre una bomba. Pericolo rosso. Se ne occupò «Il Corriere della Sera», per il quale ero corrispondente, cercando lo scandalo; se ne occupò Mogol, vicino di casa, ma non ci fece nessuna canzone. Venne a trovarmi persino il capitano dei Carabinieri di Amelia, ottima persona. Tutti sapevano chi era stato, ma non si poteva dire. Pericolo rosso.

 

PECCATORI DA PUNIRE
Il concetto cultura viene a volte travisato, cultura è la continuazione di un mondo che ha accumulato esperienza e sapienza e nozioni.

Quando si parla di cultura contadina intendiamo quella sapienza di secoli che sta alla base di una conoscenza: quando potare, in che fase della luna, come spremere l’oliva, il rapporto con gli animali.

Anche qui c’è un pericolo rosso in Umbria, troppi cacciatori uccidono quelle poche bestie che sono rimaste nei boschi, lo squilibrio arricchisce alcune specie, adesso c’è anche chi alleva cinghiali misti a suini che vanno in giro per i campi.

Dalle saette degli angeli del Signorelli a Orvieto, scattano fili rossi che vanno a colpire i peccatori; dall’altro lato della famosa cappella orvietana l’Anticristo sta parlando ai semplici, ma anche ai diavoli. Pare che sia il ritratto – o che voglia rappresentare – il Valentino, Cesare Borgia, che stava spazzando l’Umbria e avvelenando i feudatari locali per portare la regione alla Chiesa – e cioè a se stesso. Tutto questo in fretta, prima che il padre, papa Borgia, tirasse le cuoia. Si dice anche che quando finalmente Alessandro VI – papa Borgia – se ne andò in un mulinello di scandali e ruberie, il popolino si riversò in Vaticano strappando gli anelli dalle dita del cadavere e spogliando quel corpo odiato dalle ricche stoffe. La cittadinanza di Todi, fiera della sua nuova magnifica basilica, la chiamò «della Consolazione». Santa Maria della Consolazione. In effetti, consolazione di essersi liberati da papa Borgia.

La duchessa di Spoleto, la bella figlia del papa, boccoli biondi e occhi mesti, era andata sposa – terzo matrimonio – al duca d’Este. Alla morte del papa, Alfonso non cacciò Lucrezia, che gli aveva dato vari figli e che era stata una sposa poco fedele (a dire il vero anche lui aveva un’amante, ritratta poi da Tiziano, ma Lucrezia più d’uno). Lei rimase in quella corte del Nord, sempre bella, pare, sempre triste. Insomma intrecci e passioni rosso-sangue.

 

ROSSO ANTICO
Ma chi erano gli Umbri? Il popolo più antico d’Italia, ci dice Plinio – e anche Erodoto – e gran parte delle loro città vennero conquistate dagli Etruschi quando già i Greci li chiamavano Ombroi, che vuol dire temporale.

Che siano temporaleschi questi umbri? Che gli umbri portino i temporali? I Latini li chiamavano Umbri ed essendo la regione chiusa da montagne (anche se in origine gli Umbri abitavano un territorio ben più ampio di quello odierno) gli umbri di oggi sono probabilmente più vicini agli originali che non i laziali nel Lazio o i lombardi in Lombardia.

La parola ombroso, viene da umbro? Ombra viene da Umbria? In inglese to take umbrage vuol dire offendersi: si offendono facilmente gli umbri? Più degli altri? Hanno forte il senso dell’unità regionale? Io direi di sì: c’è meno senso campanilistico, anche se c’è più che altrove l’appartenenza all’unità umbra; è qualche cosa di sentito, come per gli isolani (per esempio, i sardi).

Rosso il giubbotto di Leonardo da Vinci che venne anche lui in Umbria al seguito di Cesare Borgia e sempre per quelle maledette macchine da guerra che disegnava con estro e cinismo.

In Umbria ci passavano tutti, specie i toscani, chiamati a Roma dai papi per abbellire il centro della chiesa. Il giovane Raffaello dalle Marche, il maturo Michelangelo dalla Toscana e tanti altri lasciarono una traccia importantissima: i pittori non sono gente qualunque, hanno una carica di rosso che elargiscono con il loro pennello. Non i furbastri. Quelli veri. Ma come si fa a capire chi sono i veri e quali i furbastri? Evitando la moda e affiancandoli alla cultura. Voglio portare un esempio che non c’entra con l’Umbria, ma potrebbe.

L’ho trovato a Roma, all’Ara Pacis, una rutellata. Faceva parte dell’esposizione: un signore, seduto dietro una vetrata – un americano, specifica una scritta – sta seduto al suo computer e sta scrivendo il suo cinquantesimo libro su Augusto imperatore (non faccio la spiritosa, tutto vero). Ed eccolo lì, lui che scrive al computer, e pur se non c’è modo di controllare se veramente l’artista – perché di un artista si tratta – stia veramente scrivendo il cinquantesimo o quarantanovesimo libro su Augusto imperatore, si dice che questa scena è un’opera d’arte.
Dove siano gli altri quarantanove libri su Augusto – che Dio ce ne scampi – in quale biblioteca potremmo consultarli, che siano questi in americano, italiano o latino non ci è dato di sapere. C’è di più. L’ispirazione dell’artista è a volte interrotta, c’è un grande cartello-lavagna riempito da geroglifici (che sia un riferimento all’odiata, da Augusto, Cleopatra?) e questi geroglifici sono opera dell’artista che, oltre ai cinquanta libri, sa anche scrivere nella lingua sacra. Il pericolo è rosso. Tale ormai è la paura di non accettare, di dire di no, che si accetta di tutto persino queste sciocchezze probabilmente pagate dal comune di Roma o da qualche associazione sospetta. Rosso, rosso, rosso. Sensi vietati, sangue raggrumato, papaveri.

L’Alchermes è un liquore italiano di colore rosso cremisi e veniva prodotto a Firenze già nel XV secolo, dove ancora oggi viene preparato, con l’antica ricetta, presso un emporio.

Tra i suoi ingredienti, oltre all’alcool etilico, zucchero, chiodi di garofano, cannella, acqua, cardamomo, acqua di rose e lamponi, c’è la cocciniglia. La cocciniglia è il colorante tipico, di colore rosso cremisi, e viene ricavato da un insetto della famiglia Coccoidea.

 

 

Attraverso una lunga e particolare lavorazione si ottiene l’acido carmico, da cui si otterrà il colorante. Un chilogrammo ha origine da circa centomila insetti. Il colorante siffatto, da sempre è stato destinato principalmente all’industria alimentare (E 120 è la sigla dell’additivo) e, in piccola misura, alla tintura dei tessuti. Ovviamente l’estrazione dell’acido carnico dagli insetti ha un costo molto elevato e pertanto, nel tempo, la cocciniglia è stata sostituita in modo importante da coloranti di origine sintetica (E 122, E 124, E 132).
Oltre che nell’alchermes, la cocciniglia è stata presente in molte bevande di colore rosso, come aperitivi, bitter e bevande gassate. Il nome cremisi e alchermes derivano dall’arabo qirmizi che significa prodotto da insetti.

 

dolci pasquali umbri

La ciaramicola

In molti dolci umbri…

La ciaramicola è il tipico dolce della provincia di Perugia, di colore rosso con glassa bianca, dove l’alchermes è utilizzato in maniera importante, così come per gli strufoli e le frappe, che vengono spruzzati con il rosso liquore. Non sono da meno l’arrocciata o rocciata, la zuppa inglese, il salame del re, la pizza di Pasqua dolce, i ravioli dolci con ricotta, le pesche dolci e le castagnole sono tipiche e tradizionali preparazioni di dolci umbri che prevedono l’uso dell’alchermes, che piaceva molto ai Medici e piace ancora a molti. D’ora in avanti, quando assaggerete il tipico liquore rosso cremisi o un dolce che preveda il suo utilizzo, vi sorgerà un dubbio: questo alchermes utilizza il colorante fatto con gli insetti o con gli additivi sintetici? Tra gli ingredienti potrebbe esserci scritto E 120… basterà leggere l’etichetta.

 


Ricetta tradizionale della ciaramicola

L’Umbria è una regione lontana dal mare: a sinistra ci vogliono 138 km per arrivare all’Adriatico e a destra 335 km per raggiungere il Tirreno. Eppure in questa regione, che ha conosciuto il mare solo qualche milione d’anni fa, la collana di corallo è stata un oggetto a cui non si poteva rinunciare.

Era il regalo della suocera alla nuora e, nel caso la suocera non avesse avuto disponibilità, ci pensava la mamma della sposa. La collana non poteva assolutamente mancare: ogni figlia che andava sposa doveva essere protetta da fatture e malefici.
La collana aveva perle rigorosamente digradanti ed era quella centrale a conferirle il vero valore. La perla centrale doveva essere grande, addirittura esagerata per meglio esibire la ricchezza della famiglia. Una tradizione tramandata fino agli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, quando in ogni circostanza importante si doveva sfoggiare la collana di corallo. Ormai il suo valore scaramantico è stato dimenticato: la collana col suo colore sanguigno non protegge più dalle influenze maligne, è semplicemente bella da portare e più si è distanti dal mare più la si apprezza.
Chi oggi tratta ancora coralli in Umbria afferma che la collana rossa è tornata di moda e che se ne vendono tante. La lavorazione però non si fa qui e gli artigiani capaci di ricavare perle e altri manufatti dalle colonne coralline sono sempre più rari.

 

Un monile antico

In Umbria, anche quando i collegamenti erano difficili e rischiosi, come nel Medioevo, i coralli si trovavano sempre. Li avevano gli speziali, che li macinavano per farne medicine per i ricchi, li dipingevano i pittori, caricandoli di tutti i simboli religiosi e magici allora conosciuti ed erano portati dalle donne che potevano permetterseli.
I pittori del Quattrocento e del Cinquecento hanno amato molto il corallo, tanto che Piero della Francesca, Pinturicchio, Bronzino e diversi pittori umbri hanno spesso raffigurato Gesù Bambino con una collanina da cui ne pende un rametto. Il colore rosso ricorda il sangue, la forma articolata dei rami del corallo ricorda la circolazione sangue e il tutto preannuncia il futuro martirio. Il Bambino con collanina più famoso è certamente quello in braccio alla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca.
Ormai il corallo viene da mari lontani perché il Mediterraneo lo ha quasi tutto esaurito. Sembra incredibile, ma solo 50 – 60 anni fa a Torre del Greco (Napoli) si lavorava solo il corallo di prima qualità mentre il resto veniva usato per costruire le case o come materiale di riempimento sotto l’asfalto. Oggi, girando per Torre del Greco, si possono ancora vedere muri fatti con pietre e corallo. Adesso che il mondo si è ristretto, il commercio del corallo si è allargato anche se il materiale da gioielleria è sempre più difficile da reperire.
Ci è stato spiegato che il corallo rosa e quello pelle d’angelo vengono dal Pacifico, quello rosso scuro (detto moro) proviene dal Giappone, mentre la qualità migliore è ancora quella del Mediterraneo e in particolare quella di Alghero dove però, per trovare una bella barriera, si deve scendere fino a 120 metri di profondità.