L’affresco dell’Arbor Vitae nella chiesa di San Lorenzo a Borgo Cerreto di Cerreto di Spoleto.
Il tema era ben noto alla spiritualità francescana e risente sia del Lignum Vitae di San Bonaventura ove il motivo dell’Albero della Vita del Paradiso e la croce di Cristo vengono fusi, sia l’influsso dell’Arbor Vitae Crucifixae Jhesu Christi, opera del 1305 di fra’ Ubertino da Casale. I dipinti di Borgo Cerreto mostrano sia lo strazio della sofferenza e della morte espressi dal Cristo in croce e dai dolenti, sia la speranza e la volontà di non cedere al male, espressa dall’albero della vita, con l’allusione alla profezia di Ezechiele sulle ossa aride e dell’albero di Iesse che torna a vivere.

Per comprendere quello che significavano a chi si poneva di fronte a essi occorre contestualizzarli nel difficile momento storico che si stava vivendo in quel periodo: c’erano ovunque lotte fra le fazioni, rivalità tra le città e tra i castelli, che spesso si risolvevano nelle cavalcate, cioè nell’incendio dei raccolti e quindi nella conseguente fame e nella maggiore vulnerabilità alle malattie, già favorite dall’abituale carenza di igiene.
A questo si aggiunsero altri fattori non dovuti alla volontà umana, come i terremoti e la peste. Il 30 aprile del 1279 il terremoto colpì le zone dell’appennino. In tale circostanza a Cerreto di Spoleto il consiglio si riunì all’aperto. Secondo il Sansi, che ci riferisce la notizia, tale scelta fu dovuta sia a motivi di sicurezza sia al fatto che gli edifici avevano subito danni e nessuno se la sentiva di rimanere in un ambiente chiuso. Venti anni dopo, nel 1298, il terremoto colpì Spoleto e le zone circostanti. Nel 1328 il sisma fu devastante a Norcia e nei paesi limitrofi: crollarono case, torri, chiese e tratti delle mura e innumerevoli furono i morti. Questa sciagura impressionò l’immaginario popolare: Paolo Rocchi, di Cascia, parlando del terremoto del 1599 fa ancora riferimento a quello del 1328. Tra i centri colpiti dal terremoto del 1328 che subirono danni gravi sono Cerreto di Spoleto e Preci dove, secondo il Villani, a causa del crollo del “castello”, morirono non solo tutti gli abitanti ma perfino gli animali, e forse da questo ha origine il modo di dire spoletino “ji preci” cioè “andare in rovina”.

A peggiorare la situazione, nel 1348 si diffuse la peste, che rimase endemica per tre secoli, come ci testimoniano più che i documenti le immagini dei santi protettori di questa calamità, quali in particolare San Rocco e San Sebastiano, che ricoprirono come un’ossessione le pareti delle chiese di tutta la Valnerina, testimoniando l’impotenza delle popolazioni di fronte a tale flagello. La reazione si manifestò in modi opposti: alcuni temendo l’incertezza del futuro vollero godere al massimo il presente, altri esasperarono il senso della caducità della vita. In passato la morte era vista con relativa serenità, come una realtà prevista, controllabile e gestibile.

In quel contesto storico di malattie e di violenza si esasperò il senso della colpa, del peccato e dell’aldilà col terrore della dannazione e la ricerca di assicurarsi suffragi mentre si era ancora in vita, non potendo più fare affidamento su figli o parenti visto che a molti genitori era toccato l’ingrato compito di dover seppellire i loro figli stroncati dal morbo prima di morire loro stessi avendo contratto il contagio.
In quella tragica realtà storico e sociale l’arbor vitae, come quello affrescato nella Chiesa di San Lorenzo, indicava che anche l’albero secco può emettere nuovi germogli e che dalla morte può venire la vita: un invito alla speranza e non lasciarsi sopraffare dall’angoscia: è un inno alla vita e alla fiducia come recita l’inno pasquale Fulget crucis mysterium!

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