Far intiepidire due o tre cucchiai di mosto, porvi mezzo cubetto di lievito e lasciar riposare, coperto, fino a quando sulla superficie non compariranno delle crepe (saranno necessarie circa 2 ore). Sciogliere in poca acqua tiepida il lievito rimasto. Mescolare farina, zucchero, uvetta, scorza grattugiata di limone, mosto e lievito. Impastare fino a ottenere una pasta di pane piuttosto morbida. Se lโimpasto fosse troppo fluido, unire un poโ di farina; se fosse troppo duro, aggiungere del mosto.
Lavorare bene e ricavare delle pagnottelle del diametro di 5-6 centimetri. Disporle su una placca da forno unta, piuttosto distanti lโuna dallโaltra, coprirle con un telo pulito e poi con uno leggermente impermeabile. Far lievitare 2-3 ore. Infornare a 180ยฐ e cuocere per 20-30 minuti.
I maritozzi al mosto sono tipici dellโUmbria del sud, in particolare del ternano. Si preparano anche maritozzi di forma ovale, senza mosto nellโimpasto (e, in questa versione, a Norcia erano tipici della trebbiatura) oppure sempre con il mosto, ma cotto. Il mosto cotto, dolcificante tipico di tutta lโItalia contadina, si otteneva facendo cuocere per molte ore il mosto fresco in recipienti di rame bassi e larghi. Si arrivava al giusto punto di cottura quando il liquido si fosse ridotto di 2/3 rispetto a quello iniziale. Lโuso del mosto cotto, squisito ma di lunga preparazione, รจ andato estinguendosi mano a mano che tutti potevano permettersi di acquistare lo zucchero. I maritozzi sono una preparazione che si trova anche nel Lazio. ย
Eccoci al nostro primo appuntamento culinario con una delle quattro paste tipiche della cucina romana: la pasta alla Gricia.
Come abbiamo raccontato in precedenza su queste pagine, i pastori dellโAppennino Centrale, durante la transumanza con le loro greggi verso la campagna circondante Roma, si portavano dietro, tra le altre cose, il formaggio, il pepe e il guanciale, gli ingredienti tipici per la preparazione della pasta alla Gricia. Usavano la pasta essiccata oppure la tiravano fresca, con farina e acqua, poggiandosi sui loro grembiuli da lavoro fatti in cuoio e realizzavano una specie di maltagliati. Lโipotesi del nome รจ quella derivante da Gricio, il termine con cui venivano chiamati i numerosi panettieri che, dal Cantone dei Grigioni, giungevano fino a Roma e indossavano il Griscium, lo spolverino da lavoro. Altra ipotesi รจ quella che il piatto sia nato a Grisciano, un piccolo paesino reatino del Comune di Accumoli, al confine con Umbria, Marche e Abruzzo.
Pasta alla Gricia
Ma vediamo la ricetta tradizionale per preparare una buona Gricia:
Ingredienti per 4 persone:
400 grammi di pasta (a scelta tra spaghetti, umbricelli, mezze maniche, rigatoni);
280 grammi di guanciale di maiale;
100 grammi di pecorino romano;
Pepe;
Sale per la pasta
Preparazione:
In una pentola con acqua salata, fate cuocere la pasta;
Nel frattempo tagliare il guanciale a listarelle sottili;
In una padella, far rosolare il guanciale tagliato che rilascerร il suo grasso in forma liquida;
Togliere il guanciale rosolato e metterlo da parte;
Versare la pasta al dente e umida nella padella, dove รจ rimasto il grasso liquido del guanciale;
Aggiungere pochissima acqua di cottura e amalgamare;
A giusta cottura della pasta, spegnere la fiamma della padella, versare il pecorino grattugiato e continuare a mantecare;
Aggiungere il guanciale rosolato messo da parte;
Spolverare con pepe nero macinato e mescolare appena per armonizzare il tutto;
Impiattare, aggiustando con altro pecorino grattugiato e pepe nero macinato.
La pasta alla Gricia รจ un piatto molto gustoso e saporito, dove la grassezza del guanciale e la sapiditร del pecorino devono armonizzarsi al profumo e al palato, con un buon vino. Se hai voglia di un vino bianco puoi abbinare la tua pasta alla Gricia con un Trebbiano Umbro servito fresco, dove la sua aciditร sarร tua complice. Se hai voglia di vino rosso, un Montefalco Rosso, sarร di sostegno alla valorizzazione dei sapori decisi del piatto. A volte un peccato di gola, come quello per la Gricia e un bicchiere di buon vino, puรฒ farti sentire beatoโฆ provare per credere!
Ponete in una casseruola l’olio, il guanciale e i cipollotti tritati, aggiungete quindi le fave e un trito grossolano di mentuccia e finocchio selvatico. Regolate di sale e pepe, fate insaporire, quindi unite i pomodorini a pezzetti. Portate a termine la cottura versando qualche goccia d’acqua calda se necessario. Il sugo di cottura dovrร essere piuttosto denso.
Ricetta dell’archivio di Nicoletta De Angelis.
Questa รจ la versione orvietana della scafata, detta cosรฌ dal termine dialettale scafo, che indica il baccello della fava. Questa preparazione รจ diffusa, seppur con varianti, in tutta l’Umbria ed รจ conosciuta anche con il nome di baggiana. Nell’Umbria del sud le ricette per prepararla sono simili a quella orvietana, nell’eugubino come erbe aromatiche al posto del finocchietto selvatico e mentuccia si usano la maggiorana e anche il basilico. Sempre nell’eugubino esiste una versione in cui alle fave si unisce pari quantitร di bietola. Nella zona del lago la scafata veniva chiamata fave in umido.ย
Avere il coraggio di cambiare, avere il coraggio di affrontare nuovi orizzonti, avere il coraggio di nuove sfide. Si puรฒ fareโฆ questo รจ quello che ci ha fatto capire Caterina Betti, perugina, artista dโanimo e di pensiero, che ha trascorso i passaggi della propria vita e maturazione personale trovando la forza, dapprima, di fare una lunga esperienza come fotografa professionista per poi catapultarsi in quella di chef di successo.
Caterina Betti รจ apprezzata e riconosciuta fin dai suoi primi passi culinari, tantโรจ vero che รจ stata scelta come rappresentante dellโUmbria nella seguitissima trasmissione televisiva Cuochi dโItalia condotta dal famoso chef Alessandro Borghese.
Chef Caterina, durante la nostra intervista avvenuta come unโamabile conversazione, ha raccontato di sรฉ e della sua esperienza, e ci ha trasmesso la passione e lโamore per il suo lavoro. Nellโemozione della narrazione, ci ha orgogliosamente confidato del sostegno e del grande affetto di suo marito Roberto Fattori e della loro figlia, la dolcissima Maria Letizia, fan e prima tifosa di mamma Caterina.
Caterina Betti
Caterina, ci racconti come sei diventata chef?
Il mio lavoro รจ stato da sempre quello di fotografa, che ho fatto per ventโanni, e poi il destino mi ha fatto incontrare Diana Capodicasa, la mia attuale socia, con la quale ho iniziato a collaborare con lโazienda e la scuola di cucina che lei aveva al tempo. Ci siamo trovate, fin da subito, in forte sintonia. Da quel momento ho capito che quella che era stata da sempre una mia grande passione, che praticavo solo tra le mura domestiche e per gli amici, stava sbocciando e piano piano, quando le cose si incastravano, ho capito che il lavoro nel mondo della cucina era quello che volevo fare. Dopo una consultazione familiare, ho fatto un salto nel buio, lasciando la mia attivitร di fotografa. Allโinizio non รจ stato facile, soprattutto per mia figlia Maria Letizia, anche perchรฉ lei mi ha conosciuto come fotografa ed รจ stata sempre abituata a frequentare lo studio, dove รจ cresciuta tra scatti e foto. Adesso Maria Letizia รจ la mia prima sostenitrice. A quasi cinquantโanni ho deciso che dovevo cambiare rotta e con il cuore ho fatto questa follia, seguendo il mio sogno.
Piรน che follia hai avuto il coraggio di scegliere, passando dal certo allโincerto.
Per un anno e mezzo ho tenuto i piedi in due staffe. Per un periodo ho continuato a lavorare come fotografa di matrimoni e contemporaneamente mi occupavo di cucina. Piano piano sentivo che il lavoro di fotografa si stava spegnendo e a quel punto mi sono gettata sempre piรน nella mia nuova sfida. Dopo aver fatto per tanti anni la fotografa di matrimoni, dove ero esposta in prima persona, adesso mi ritrovo sempre negli eventi matrimoniali, ma dietro le quinte, in cucina; mentre Diana, la mia socia, รจ in sala e cura le relazioni di marketing con clienti e aziende. Oggi organizziamo, tramite la nostra azienda Cucinare Catering Eventi, anche delle cooking class per turisti, a cui faccio conoscere i piatti della tradizione, oltre a lavorare per gli eventi in genere.
Raccontaci la strada della tua formazione da chef, in modo che possa essere un esempio per qualcuno che volesse intraprendere questo percorso.
Iniziare questo lavoro non piรน da giovanissimi รจ piรน difficile e serve maggior impegno. Per la mia formazione ho sempre fatto ricerca in tutti i campi, prima allโIstituto dellโArte e poi per raggiungere la mia laurea in Storia dellโArte. Il lato artistico, la progettualitร e la sperimentazione sono anche in cucina, mia costante valvola di sfogo. Mio padre era bravissimo nella preparazione dei piatti e anche mia madre era unโottima cuoca, che appuntava le sue ricette tradizionali umbre in un prezioso libricino che ancora oggi custodisco gelosamente. Tutto ciรฒ mi ha sempre portato a far ricerca, nel rispetto delle tradizioni culinarie locali e, quando mi sono accorta che la cucina stava diventando un lavoro, ho frequentato lโAccademia Italiana Chef a Roma e mi sono diplomata. Questa certificazione ha rappresentato lโavvio ufficiale della mia nuova attivitร .
Caterina, comโรจ stata la tua partenza da chef?
Sono partita, grazie al costante lavoro di Diana come esperta di marketing, preparando le mie ricette durante gli eventi organizzati per aziende private e istituzioni pubbliche. Un mio ricordo bellissimo รจ quello di aver preparato il buffet, alla Biennale di Venezia, per la mostra di apertura dellโartista americana Beverly Pepper, scomparsa recentemente e che ha vissuto per molto tempo a Todi, dove รจ stata amorevolmente apprezzata e a cui ha donato le sue opere per un parco monumentale. Lei ha rappresentato lโUmbria alla Biennale veneziana e noi abbiamo curato il catering per la sua mostra.
Recentemente hai partecipato alla trasmissione Cuochi dโItalia di Alessandro Borghese. Le tue sensazioni?
Dopo varie selezioni, ho fatto il provino finale e dopo una trepidante attesa, mi hanno comunicato che ero stata scelta a rappresentare lโUmbria. ร stata unโemozione fantastica! Partecipare con i miei piatti mi ha fatto crescere e riflettere per migliorarmi professionalmente.
Caterina Betti con Alessandro Borghese in “Cuochi d’Italia”
Le tue preferenze culinarie e i tuoi progetti?
Per i profumi e i ricordi, ho una preferenza per la lavorazione dei lieviti. Mentre il mio prossimo e ambizioso progetto รจ quello di pubblicare un libro di cucina, a cui sto giร lavorando. Sarร molto particolare e non voglio anticipare niente.
Caterina, vuoi mandare un saluto ai nostri lettori, regalandogli una tua ricetta?
Volentieri. In questo lungo periodo di difficoltร legato al Covid, dobbiamo sorridere e andare avanti. ร un momento durissimo dove il lavoro latita ed รจ precario, ma nelle difficoltร vediamo gli aspetti positivi, dove la natura si รจ riappropriata di alcuni spazi e noi abbiamo potuto ripensare alla progettazione del nostro lavoro. Bisogna guardare oltre e tutto rifiorirร , in quanto la gente ha voglia di uscire e incontrare persone, tornando alla normalitร . Saluto tutti con una ricetta, a me molto cara…
TORTA DELLA NONNA IDA
Per la frolla:
150 g di farina 00
1 tuorlo
40 g di zucchero
70 g di burro
Per la farcia:
250 g di ricotta
50 g di zucchero
Mezzo cucchiaino di estratto di vaniglia
Buccia di mezzo limone grattugiata
1 tuorlo dโuovo
1 bicchierino di maraschino
Per la meringa:
2 albumi
100 g di zucchero
Procedimento:
Impastare velocemente gli ingredienti per la frolla, fare una palla e lasciare riposare in frigorifero per 10 minuti. Stendere poi in una teglia imburrata o antiaderente, senza fare i bordi. Cuocere a forno moderato per 15 /20 minuti. Intanto mescolare gli ingredienti del ripieno, quando la base di frolla sarร cotta estrarla dal forno e coprirla con questa farcia. Infornare nuovamente e cuocere per altri 15 minuti circa. Intanto montare a neve i due albumi con lo zucchero, sfornare la torta e ricoprirla interamente con la meringa, lasciandola cuocere a 100ยฐ per circa 30/40 minuti, o almeno finchรฉ non vedrete che la meringa si sarร leggermente dorata.
Fate un trito di aglio e rosmarino, cospargetevi le costolette, salatele, ungetele con lโolio e fatele marinare per almeno 12 ore prima di cuocerle alla griglia.
Questa รจ una ricetta dellโUmbria del sud, dove si usava principalmente la pecora. A Gubbio al posto del rosmarino usavano la maggiorana e, a volte, le costolette venivano ripassate in padella con sugo di pomodoro. In alcune zone del perugino si facevano le costolette di castrato in umido, lasciando insaporire con aglio, olio e rosmarino; si rosolavano le costolette, si irroravano di aceto, si salavano, pepevano e portavano a cottura con il pomodoro. ย
Sbattete lo zucchero e le uova, unite, lavorando con un cucchiaio di legno, la farina e, in ultimo, il lievito. Versate in una tortiera leggermente unta, infornate a 180ยฐe fate cuocere per 35-40 minuti. Lasciate raffreddare e tagliate a fette sottili e della misura del piatto in cui sarร posto il dolce. Lavorate bene la ricotta con lo zucchero a velo, unite il cioccolato, le mandorle (che avrete fatto caramellare in un tegamino con un poโ di zucchero), i canditi, lโuva secca, la vanillina e il maraschino. Spruzzate le fette di torta con lโalchermes e ponete nel piatto uno strato di torta, uno di farcia e cosรฌ via fino ad esaurimento degli ingredienti. Lโultimo strato dovrร essere di torta. Coprite con un piatto e sopra di esso mettete un peso. Lasciate il dolce cosรฌ, in frigorifero, per mezza giornata almeno.
Questo dolce veniva servito nei pranzi di matrimonio dei contadini ricchi di Gubbio. Lโuso รจ durato fino a metร degli anni Cinquanta, ma, anche se in altre occasioni, in alcune famiglie continuano a prepararlo. Famosi erano i dolci di ricotta della signora Rina Secchi Notari, che veniva chiamata a preparare i pranzi di nozze e che mi ha svelato la sua ricetta personale. Il dolce di ricotta – รจ evidente simbolismo del bianco della ricotta – giร nellโOttocento era una delle portate del pranzo di matrimonio dei contadini della vicina Romagna.
Disossate il pollo, lasciando attaccato alla pelle uno strato di carne nรฉ troppo spessa nรฉ troppo sottile. Tritate la carne ricavata dal pollo, la polpa di vitello e metร della mortadella. Ponete il trito in una terrina, unite le salsicce spellate e sbriciolate, il parmigiano e la noce moscata. Unite due uova, burro, sale, pepe e mescolate bene. Introducete lโimpasto nel pollo disossato. Lessate lโuovo rimasto, sgusciatelo e ponetelo intero allโinterno dalla galantina. Tagliate a filetti la mortadella rimasta e introducete anche i filetti allโinterno della galantina. Avvolgete in una carta stagnola, legate con spago da cucina e ponete in una pentola con acqua fredda salata. Fate cuore per un paio dโore, togliete la pentola dal fuoco e fate raffreddare per 30 minuti la galantina prima di toglierla dallโacqua di cottura. Servite la galantina fredda e tagliata a fette non troppo spesse.
La galantina รจ una ricetta della cucina italiana entrata nellโuso di molte regioni e, fermo il concetto di base che รจ quello di un pollo disossato e riempito variamente, ve ne sono molte versioni. In Umbria era un piatto tipico dei pranzi di nozze, di battesimo e delle occasioni legate al ciclo della vita. A prepararla erano le donne che venivano chiamate a dirigere le operazioni in cucina e cucinare, quando i pranzi, soprattutto in campagna, si preparavano in casa anche quando i commensali erano molti. ย ย ย ย ย ย
Fare a scaglie il tartufo; rompere in una terrina le uova, salarle e sbatterle leggermente. Versare lโolio in una padella per friggere, aspettare che sia ben caldo e versarvi le uova sbattute. Lasciar rapprendere la frittata in modo che sotto sia leggermente dorata e rimanga morbida in superficie. Togliere la padella dal fuoco, cospargrte rapidamente la superficie morbida con le scagliette di tartufo e ripiegare la frittata su sรฉ stessa. Servire subito.
Molti mescolano il tartufo alle uova sbattute, ma questo era il modo in cui un tempo a Norcia e Gubbio preparavano la frittata di tartufi; la tecnica usata, รจ di fatto, quella delle omelettes ma mi pare piรน giusto il termine frittata, che era quello usato in queste due cittadine umbre del tartufo.
La palomba alla ghiotta รจ unโantica specialitร di Todi, che nei ristoranti si trova in autunno e neanche sempre, mentre fuori stagione รจ quasi introvabile.
La ghiotta, quella della palomba, รจ solo la leccarda dove si raccoglie il sugo di cottura degli uccelli, che girano adagio sullo spiedo senza essere lambiti dalla fiamma e, mentre sono spennellati di olio, i loro umori scendono nella ghiotta. Gustare la palomba alla ghiotta รจ, scusate la ripetizione, una vera ghiottoneria!
Io lโho mangiata per la prima volta questโestate, cotta in maniera raffinata dalla mia amica Pina. Pina ha imparato a cucinare prima ancora di camminare e nel forno dei genitori ha preparato pane, dolci e ogni genere di squisitezze: delicatessen per gli stranieri della zona. Adesso che si รจ ritirata, solo poche persone fortunate possono gustare i suoi piatti speciali.
Tornando alla palomba, dopo una cottura di due giorni si presenta a pezzi, immersa in un sughetto denso da mettere sul pane bruscato. Ci sono varie scuole di pensiero disposte a scannarsi per affermare che il loro sughetto sia il solo valido. Cosa contiene quel sughetto cosรฌ denso e saporito: olive nere o verdi, fegatelli, vino rosso e chissร quali altre prelibatezze.
Regina delle tavole umbre
Queste palombe sono uccelli migratori che, volando dallโUngheria allโAfrica, passavano sopra i boschi di Todi e di Amelia. Lรฌ erano attese dai cacciatori che, fra capanni, richiami e uccelli addestrati (i palombini), studiarono ogni genere dโinganno per far scendere le palombe verso le pentole che le aspettavano. La caccia alla palomba era unโattivitร tipicamente umbra, anche se ora che i boschi sono stati sostituiti dai seminativi le palombe hanno modificato il loro percorso migratorio. Certi piatti, che oggi sono diventati prelibate raritร , qualche decennio fa erano invece piatti di sussistenza per i poveri, che mangiavano una palomba di tanto in tanto, di nascosto dai proprietari terrieri.
I signori, proprietari dei latifondi, ne cacciavano invece a centinaia, ma mai da soli, sempre con amici. La caccia alla palomba piaceva inoltre ai laici e ai religiosi; anzi i religiosi erano molto attenti che la caccia si svolgesse secondo le regole.
Con un editto del 1815 rivolto ai tuderti, il Cardinal Bartolomeo Pacca, Camerlengo di Santa Romana Chiesa, proibรฌ a ยซciascuna persona, secolare o ecclesiasticaยป di ยซtagliare legna, far chiassi, e qualsiano altri rumori nei siti, ove sono i palchi deโ cacciatoriยป nella stagione della caccia ai palombacci, ยซsotto pena di scudi cinquanta per ciascheduno, ed altre pene anche corporaliยป. Multa e botte per i disturbatori della caccia alla palomba: se lo dice un cardinale vuol dire che era un rito della massima importanza. Fino a pochi anni fa sulla tavola delle famiglie benestanti di Todi il pranzo di Natale prevedeva lapalomba alla ghiotta che, prima dellโentrata in uso dei frigoriferi, veniva conservata nelle neviere (o ghiacciaie) dallโautunno al Natale: tradizioni che sarebbero scomparse se non ci fosse il Clubdella palomba. Cecanibbi di Todi รจ la sede dellโUniversitร della Palomba, ovvero dellโassociazione venatoria da dove provenivano i migliori capocaccia e che รจ fondamentale per la promozione di eventi dove la palomba รจ la regina e i commensali sono i suoi adoratori.
Affettate gli aglietti e mondateli, togliendo loro la radice, ma non la punta verde e le foglioline. Lessateli in poca acqua, scolateli e tagliateli a rondelle. Ponete gli aglietti cosรฌ preparati in una padella da frittata, quindi lasciateli rosolare; aggiungete le uova salate, pepate e leggermente sbattute e fate rapprendere prima da un lato e poi dallโaltro. Potete servire questa frittata sia calda sia fredda.